Dunque un altro modo è possibile.

A leggere bene tra le righe delle vicende che hanno visto contrapposti il governo greco e la cosiddetta troika (Bce, Commissione europea e Fondo monetario internazionale), si scorgono segnali che rendono immaginabile un percorso diverso e finora sconosciuto per trattare argomenti spinosi come quelli delle regole di gestione dei problemi economici che as­sillano diversi stati membri della comunità europea.
     Si intravedono crepe in quel fronte rigorista, composto da istituzioni e governi,
che conosce un unico modo per gestire le crisi e lo applica sempre e comunque. Che il paese in crisi sia l’Italia o la Spagna, l'Irlanda o la Grecia, la medicina è sempre la stessa. Austerità e riforme. Ma non riforme autodeterminate o condivise, bensì imposte. Dal welfare alla scuola, dalla sanità al lavoro, la disciplina richiesta è sempre quella del massimo rigore e della minima spesa. Che a pagare siano le fasce più deboli ed esposte, poco importa. Che l’economia interna si comprima, anche. L’importante è tenere i conti pubblici sotto controllo (per quelli privati qualche deroga è tollerata). Fatto è che i risultati non sono stati finora confortanti. E infatti il popolo greco ha scelto un altro governo, con un programma politico non proprio in sintonia con il pensiero unico dei vertici europei. Ed è cominciata una battaglia dialettica e politica soprattutto con la Germania.

     Certo la forza degli attori in campo è impari. E si vede. Da un lato una delle nazioni più deboli della comunità europea e dall’altro un intero gruppo guidato dalla Germania con al seguito le altre nazioni.
     Per comprendere i rapporti di forza in campo si pensi che la Germania ha un PIL oltre 10 volte maggiore di quello della Grecia e un livello di esportazioni 25 volte più grande.
     Ovvio che con questi rapporti di forza il David greco non poteva che sfidare il Golia d’Europa su piani diversi, evitando che la discussione si incentrasse sugli aspetti meramente economici in favore di considerazioni socio politiche, peraltro alla base della vittoria elettorale interna.
     Nella discussione non sono mancati momenti di tensione con dichiarazioni anche pesanti di alcuni esponenti del governo tedesco, probabilmente piccati per il rinnovato richiamo alla questione dei mancati indennizzi per i danni di guerra procurati dalla Germania nel periodo di tirannia nazista. E si sa che quello del periodo nazista è un tasto dolente di cui i governi te­deschi non amano parlare.

     Sarebbe stato invece interessante riesaminare con spirito costruttivo quanto accaduto
nel secondo dopoguerra prima e negli anni ’90 poi, quando fu la Germania ad aver beneficiato della solidarietà internazionale.
     Nel primo caso con la cancellazione di circa la metà del debito
da parte dei diversi governi che ne de­tenevano quota parte, concesso per favorire la rico­struzione post bellica ed avviare quel ciclo virtuoso che grazie al rilancio delle esportazioni dette poi luogo a ri­levanti incrementi del reddito interno.
     Nell’altro caso,
dopo caduta del Muro di Berlino, quando i paesi europei si trovarono a dover subire le scelte di politica economica della Germania che, implicitamente assumendo il primato degli ideali nei confronti dell’economia (in quel caso la ricomposizione dell’unità tedesca), avviò una serie di misure a sostegno dell’asfittica economia dell’Est, inducendo la Bundesbank ad attuare pratiche monetarie antinflazionistiche che impattarono pesantemente con le economie degli altri paesi europei, fino a costringere alcuni di essi, tra cui l’Italia, ad uscire dallo Sme per adottare politiche monetarie autonome, utili a fronteggiare il basso tasso di crescita.
     È quindi un sistema di solidarietà internazionale
ciò a cui si dovrebbe tendere, se si vuole dotare la comunità europea di strumenti in grado di unire i popoli con valori condivisi che non siano solo quelli delle politiche monetarie. Invece l’Europa è partita col peccato originale di aver considerato la moneta quale elemento di aggregazione, lasciando in secondo piano l’aspetto sociale ed economico che è invece quello che maggiormente caratterizza gli Stati membri.
     Certo al giorno d’oggi la finanza è importante, ma non è pensabile che imporre regole stringenti e pre­scrivere alle banche rigorosi requisiti patrimoniali per metterle al riparo da crisi sistemiche, significhi creare consenso sociale.
     Il consenso è diretta conseguenza della partecipazione e se non si riesce a coinvolgere le popolazioni al progetto di unificazione, seppur nelle specifiche pecu­liarità di ogni Stato membro, il rischio di fallimento di un piano così ambizioso non è poi così remoto.
     Il fatto è che non ci sono alternative.
    Nel mondo moderno, caratterizzato da logiche di globalizzazione molto spinte dove la leva demografica è il principale fattore che definisce le masse di consumi potenziali e identifica i paesi con il moltiplicatore economico di maggior rilievo, le grandi potenze econo­miche storicamente definite sono ormai parte non preponderante di un sistema che pure hanno contribuito a creare.

     Le logiche di sviluppo, un tempo appannaggio delle potenze economiche occidentali, si discutono in consessi dove
la voce dei paesi emergenti (Brasile, Russia, India e Cina, identificati dall’acronimo BRIC), si leva con sempre maggiore autorevolezza per rivendicare compartecipazione e condivisione delle scelte. E quando i BRIC raggiungeranno uno sviluppo armonico, emendando la crescita economica dalle problematicità ancora oggi esistenti in materia di redistribuzione del reddito e sviluppo sociale, assumeranno a pieno titolo la qualifica di grandi potenze economiche. A quel punto la Germania o la Francia, la Gran Bretagna o l’Italia non potranno essere interlocutori adeguati. Lo sarà l’Europa.

     Quell’Europa che è auspicabile rinasca più forte e coesa, dopo le vicissitudini che ne hanno caratterizzato l’esistenza negli ultimi anni a causa della crisi economica
che ha duramente colpito gli stati membri più esposti. Un gigante non più con le gambe di argilla, rinvigorita da politiche economiche rigorose ma solidali, che sappia guadagnarsi la partecipazione convinta della gente, recuperando, nel rispetto delle diversità, lo spirito unitario richiamato da un’antica tradizione democratica.
     Al bando ipocrisia e prove muscolari. Naturalmente senza concessioni al malcostume e alla corruzione. Ben vengano politiche inclusive, rispetto delle scelte, osservanza delle regole e salvaguardia delle pari opportunità.
     Questa la ricetta. Un passo indietro di ciascuno per un passo avanti di tutti.

Gennaro Angelini

 

 

Da "Nuova Realtà", notiziario dell'Associazione Bancari
Cassa di Risparmio di Puglia - UBI><Banca Carime
Anno XXI - numero 2 - giugno 2015

 

 

 

 

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Piazza Scala - giugno 2015