Per onorare il giovedì santo, prima di Pasqua, dovere cristiano era visitare i Sepolcri  e il venerdì santo  seguire la processione de’ Varetti. Ancora molti fiorai non avevano riaperto i loro negozi  perciò i parroci chiesero aiuto ai parrocchiani per poter addobbare, secondo tradizione, i Sepolcri. Così tutti si diedero da fare per portare mazzi di fiori e germogli di grano verde nelle chiese. Con mamma e papà  entrammo in cinque chiese a pregare e ad ammirare, ben disposte nei vasi poggiati a terra su grandi tappeti stesi davanti agli altari delle cappelle laterali, le belle composizioni floreali fra cui splendevano, d’oro o d’argento, alti candelabri con le candele accese, la cui luce tremula, fra l'andirivieni bisbigliante della gente, sfiorava in chiaroscuri di mistero le immagini sacre delle pale in alto e  in basso accarezzava le ciotole sparse sul pavimento piene di fili di grano verde appena germogliato.  L’indomani, tutti sul Corso a seguire la processione del Venerdì santo. I Varetti, le statue sacre, ondeggiavano come in bilico  sulle  pedane di legno poggiate su due lunghe travi che,  fuoriuscendo per più di due metri avanti e dietro da sotto le pedane, erano a spalla sostenute, per voto,  da otto,  a volte da dodici  uomini robusti e muscolosi. Al suono dei colpi cadenzati del tamburo, avanzavano faticosamente a passetti piccoli gli omaccioni gravati dal gran peso di quelle grandi statue così affascinanti  per quell'espressione negli occhi d'immobilità dolorante che contrastava con il loro ondeggiamento un po’ ridicolo.  “S’annacanu - diceva papà – e però, senza nnacata chi processioni è?”.  In effetti i Varetti dondolavano come pupazzi alla mercé dei portatori che sbuffavano sotto le travi  sudati, affaticati, spesso urlanti qualche parolaccia, appena smozzicata quando si rendevano conto di stare proprio sotto il peso degli stessi personaggi sacri un istante prima vituperati. Anche la folla al seguito della processione  cadenzava il passo, come i portatori, al suono di morte del tamburo e ad ogni sosta grandi monete di carta venivano attaccate alle vesti delle statue per devozione.

A Varetta di «Gesù nell'orto degli ulivi» avanzava ancora più lentamente anche se necessariamente sistemata su un camion perché molto grande, infatti era piena di varie statue di apostoli e di piccoli alberi veri di ulivo in grossi vasi di coccio. Seguiva subito dopo ‘a Varetta di  Gesù piagato e sanguinante sotto il peso della croce  che subito provocò pianti e sospiri nelle pie donne.  Per ultima l'Addolorata, tutta vestita di nero: nel viso di marmo lucido, devastato dall'angoscia, la bocca aperta in una smorfia di dolore,  rivelava straziata al mondo intero la sua disperazione.

- "Figlio, figlio, adorato giglio co’ no repundi…” - Molto commosso cominciò subito a declamare  papà sottovoce. E mamma  ironica: “Gli piace ricordare Jacopone da Todi ma, figurati, tuo padre  è il tipo che si commuove con facilità, anche vedendo certi film mielosi con Amedeo Nazzari,  come “Catene”  e piange pure veramente!”.

- “Però i Varetti ‘i Trapani -  commentò papà come ogni anno ignorando la provocazione - sunnu cchiù beddi e ‘i chiamanu I Misteri secondo una tradizione spagnola. La balaustra che cinge la pedana dell’Ecce Homo è tutta d'argento e anche gli elmi e le spade dei soldati romani sono d’argento. I Misteri sono proprio preziosi e devono fare sosta davanti a determinati palazzi, forse perché quelli che abitano in quelle case hanno già offerto prima tanti soldi per dimostrare così il loro prestigio.  Comunque s’annacanu anche Los Misteros”.

Cantavano le pie donne al seguito velate di nero e due voci alquanto stridule, di soprano mancate, si alzavano spesso di un  paio di toni sulle altre,  in buona esibizione. E anche urla e pianti accompagnavano  la Mater dolorosa,  delle varie donne  che, per assistere avidamente al dramma sacro di stagione, affollavano terrazzi e balconi vestiti a festa con drappi colorati  come ambiti palchi o loggioni d'affaccio.

 Per Pasqua mamma preparava sempre  i cudduraci, sorta di dolci a cui dava forma di cestini con inseriti delle uova sode e  non mancavano mai  gli agnolotti, che aveva imparato a fare in Piemonte, e la pastiera. 

-  “Tutti a tavola! È prontu, ‘a pasta è  ‘n tavola”.

Mi precipitavo subito perché gli agnolotti mi piacevano tanto.

- “Piano, piano – gridava  mamma - non t’affogare e non mangiare con la testa nel piatto, sollevala!”.

E papà subito cominciava a recitare:

 

 E la testa sollevò dal fiero pasto!

 

-  La bocca, la bocca – suggeriva pronta mia sorella.

-  Giusto, giusto… :        

E la bocca sollevò dal fiero pasto.

  Ahi dura terra perché non t’apristi?  
                                 Ahi Pisa Pisa vituperio delle genti!                                 
 

- Già - replicava  sempre mamma - e i pisani ti rispondevano subito:

 

“NO cavaliere, piuttosto:

Ahi Pisa Pisa

Vita e Impero delle genti
                                                               

Per festeggiare il lunedì dopo Pasqua, ‘u pascuni, si facevano gite nei dintorni della città. Tenendo conto che non tutti possedevano una macchina, le gite si facevano molto spesso a piedi o in bicicletta. I più volenterosi in bici arrivavano fino a Catona oppure,  dall’altra parte della città, fino a Pellaro. A piedi ci si accontentava di arrivare fino a Pentimele o al campo d’aviazione dalla parte opposta. Non si diceva aeroporto! Era un campo d’aviazione militare e sul prato intorno, oltre la recinzione,  ci si poteva liberamente sedere sull’erba, stendere una tovaglia su cui si sistemavano le buone cose portate da casa e si mangiava allegramente tutti insieme: pane e frittata, pane e pomodoro, pane e cotoletta. A volte però le mamme portavano addirittura nelle ceste un intero pranzo con pasta al forno, carne, pastiera, frutta e compagnia bella. Anche col treno a volte si faceva ‘u pascuni, avventurandosi ad andare più lontano, fino a Scilla o anche fino a Taormina prendendo ‘u ferribotti dove al bar si compravano arancini e pallette ripiene di crema spolverizzate all’esterno di zucchero, le cosiddette pesche con un peduncolo e una finta fogliolina verde come nelle pesche vere.

La domenica di Pasqua quell’anno andammo a festeggiarla, presso dei parenti, a Rombiolo, vicino Vibo Valentia, così abbiamo assistito all’ Affruntata (l’incontro).   La piazza davanti alla chiesa era piena di gente che si arrampicava  sui muretti per vedere meglio lo spettacolo.  Possiamo dire così perché in effetti stavamo  per  assistere davvero a un commovente dramma sacro. Dopo la messa, dalla chiesa cominciarono a uscire le statue poste su pedane portate a spalla  dai portatori: la grande statua del Cristo sanguinante (sei portatori), la  statua della Madonna addolorata (sei portatori)  imponente, tutta coperta da un mantello  nero che le copriva  anche la testa e infine la piccola  statua di San Giovanni  coperto da un monticello rosso,  più leggera delle altre due,  solo quattro  portatori.

Colpi cadenzati e lugubri del tamburo mentre passavano fra la gente prima la statua del Cristo che lentamente si avviò giù verso una discesa a sinistra della piazza e dopo la curva scomparve, poi  la statua della Madonna addolorata che, sempre molto lentamente, si diresse giù per un’altra discesa a destra della piazza e scomparve.  Quando dalla chiesa uscì la statua di San Giovanni i colpi di tamburo diventarono più veloci, assillanti, perché San Giovanni,  con grande fatica dei suoi portatori, doveva correre  e scendeva  giù per la discesa a sinistra come per andare a  parlare con Gesù, quindi risaliva e  giù di nuovo per la discesa a destra per parlare con Maria. E risaliva e ritornava a scendere verso  Gesù e risaliva e riscendeva  verso Maria. Il manticello rosso svolazzava continuamente. I tamburi  battevano  colpi sempre più accelerati.   Ci sembrava  di sentire S. Giovanni  urlare a Gesù: “Veni, veni ‘a Maronna t’aspetta, non la fari ciangiri cchiù” e poi a Maria: “Veni veni, to figgiu risuscitau, è vivu, è vivu!”. Tamburi sempre assillanti. Finalmente, ecco,  si cominciarono a intravedere le due grandi statue che ritornavano lentamente verso la piazza. San Giovanni  sempre avanti e indietro dall’una all’altra statua.  Quando infine, tornate  nella piazza, le due grandi statue s’incontrarono, forte rullo di tamburi e  cadde improvvisamente giù per terra il lungo mantello nero di Maria che gioiosa apparve  vestita di bianco e celeste con splendidi ricami dorati.  Grande commozione in tutta la gente mentre le trombe della banda adesso suonavano un trionfante inno di gioia.

 

Mariella Di Pasquale

 

 

 

 

 

 

 

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