In quel clima di desolazione come si divertiva la gente? Semplici, modesti svaghi in casa e fuori casa. In casa, si ascoltava parecchio LA RADIO. Quello che per la gente comune oggi è la televisione, allora era la radio.
Piuttosto che leggere il quotidiano, per conoscere gli avvenimenti del giorno, si preferiva ascoltare il giornale-radio annunciato dal cinguettio del simpatico “uccellino”. Alla radio si sentivano anche le commedie o i romanzi. Si sentiva cioè la voce degli attori che recitavano ma fisicamente non li conoscevamo. Molto piacevole naturalmente per tutti era ascoltare le novità musicali diffuse dai vari cantanti del tempo accompagnati da varie orchestre: Orchestra Angelini più classica, Orchestra Ferrari e Orchestra Barzizza più swing, e poi l’ Orchestra Trovajoli, l’Orchestra Fragna, Orchestra Mojetta, Orchestra Kramer ecc. Poche canzoni lacrimevoli (che comunque in Italia non mancano mai), la gente in quel periodo aveva bisogno di allegria, perciò si diffusero soprattutto canzoni forse sceme ma allegre e spensierate come “I cadetti di Guascogna”, “I pompieri di Viggiù”, “Arrivano i nostri”. Il primo Festival di Sanremo, trasmesso alla radio il 21 gennaio del 1951 dal Salone delle Feste del Casinò di Sanremo fu seguitissimo e all’indomani, per le strade di Reggio, già si sentiva canticchiare di qua e di là “Grazie dei fiori”, la canzone vincitrice. Le parole della canzone molti ragazzi le avevano già imparate perché scritte alla svelta su un foglio, la sera prima, mentre Nilla Pizzi cantava! E già, bisognava arrangiarsi. Non esistevano canzonieri!
Con piacere si seguiva alla radio anche il varietà del sabato sera (come “La Bisarca” che ebbe tanto successo), e poi le chiacchierate di Alberto Sordi con i suoi “compagnucci” e le strane conversazioni di Lelio Luttazzi con la sua partner i quali, all’inizio della trasmissione, si salutavano così: “Ciao Gallarate!” “Ciao Frosinoni!”, e ancora i monologhi di Turi Ferro che, nella trasmissione “Il fico d’India”, iniziava a parlare sempre con questa frase: ”Carissimo fratello Sarbatore, ti scrivu da’ bedda Catania chi cchiù tempu passa e cchiù bedda addiventa” !
Intorno al 1954, lo sappiamo, arrivò LA TELEVISIONE e fu la grande novità, il grande passo in avanti, anche se si poteva vedere soltanto un canale. Ma si vedeva! Ascoltando la radio si udiva ma purtroppo non si vedevano né il lettore del Giornale-radio né gli attori delle commedie né i cantanti. Bisognava immaginarseli fisicamente. Né per compensare c’erano delle riviste, dove poterli vedere in qualche foto.
Le ragazze si accontentavano di leggere Grand Hotel, un rotocalco pieno di storie a fumetti, con disegni in bianco e nero (i foto-romanzi su Grand Hotel cominciarono solo qualche anno dopo) con personaggi protagonisti di romanzi d’amore che appassionavano le giovanissime, come Afdero, un affascinante zigano che fece sognare le ragazzine benché già sognavano abbondantemente con i romanzi di Delly, Frédéric e Marie, due fratelli scrittori francesi. Per i primi quarant’anni del ‘900 Delly è stato sinonimo di romanzo rosa per antonomasia, centrato generalmente sul tema dell’amore contrastato, uno degli ultimi prodotti della grande stagione del feuilleton del secondo ‘800. Però le ragazze lo leggevano con piacere e comunque ebbero tanto successo anche i romanzi gialli di Giorgio Scerbanenco d’impronta decisamente più moderna.
In televisione dunque tutti finalmente potevano vedere i mitici personaggi! I popoli antichi mitizzavano gli eroi che immaginavano come discendenti dagli dei, invece i giovani degli anni ‘50, visto che ormai eroi non ce n’erano più, né dei da adorare, oltre agli attori del Cinema e agli assi dello sport, soprattutto ciclismo e calcio, cominciarono ad adorare i personaggi della TV. Ecco i protagonisti del nuovo Mito. Finalmente fu possibile vedere anche il festival di Sanremo! Poter sentire e anche vedere la mitica Nilla Pizzi, e Achille Togliani, il Duo Fasano e Nunzio Filogamo con il suo “cari amici vicini e lontani buonasera, buonasera ovunque voi siate” fu una gioia! Adesso sì che ci si sentiva più partecipi.
Infatti i bar di Reggio, per fare più affari, subito comprarono degli apparecchi televisivi perché, dato che ancora la televisione costava un po’ troppo e non tutti si potevano permettere questa spesa, la gente così si sarebbe recata più spesso al bar per seguire le varie trasmissioni preferite, e così spendevano un po’ di soldi per consumare qualcosa.
Ma man mano i prezzi degli apparecchi televisivi andarono diminuendo e la televisione entrò sempre più nelle case. I vari gestori dei cinema cominciarono addirittura a temere che molte persone ormai non avrebbero avuto più interesse ad uscire di casa per andare a vedere un film. Dunque anche nei cinema, per far venire più volentieri la gente, fu piazzato il televisore, così addirittura veniva interrotto per un’ora il film per far vedere agli spettatori in televisione il gioco a quiz “Lascia o raddoppia” condotto con grande successo da Mike Bongiorno e molto seguito dal pubblico televisivo che non voleva perdere neanche una puntata.
Proprio vero, con l’avvento della TV lo spettacolo in casa fu ormai alla portata di tutti! D’altronde, per quei tempi, poter vedere su un piccolo schermo, seduti in casa nella propria poltrona, tutto quello che invece prima, ascoltando semplicemente la radio, era immerso come in un alone di mistero, ecco, fu come entrare nella magia! Comodamente, a casa tua, potevi vedere di tutto: film, varietà, commedie, prime forme di fiction che si chiamavano Romanzi sceneggiati come La cittadella di A. J. Cronin (autore inglese di romanzi ambientati nel mondo della medicina) protagonisti gli attori Anna Maria Guarnieri e Alberto Lupo. Come andare al cinema, o a teatro! Che volevi di più dalla vita! Anche i “gialli” si cominciò a trasmettere in Tv, con il Tenente Sheridan interpretato da Ubaldo Lai e i romanzi polizieschi di Georges Simenon con il Commissario Maigret interpretato da Gino Cervi.
Al sabato non mancava mai il varietà televisivo con musica, balletti, cantanti e comici. Ogni venerdì invece la Commedia, cosa molto positiva perché buona parte degli italiani non conosceva la prosa dato che nei teatri di molte città, compresa Reggio, anche se capoluoghi di provincia (figurati nei piccoli Comuni e nelle campagne dove non esistevano teatri!), la prosa non arrivava affatto.
Così, poveri provinciali reggini, abbiamo avuto modo di conoscere fisicamente vari bravi attori italiani di prosa mai visti prima, come Elisa Cegani, Enrico Viarisio, Cesco Baseggio, Paola Borboni, Rina Morelli, Gilberto Govi, Ernesto Calindri, Franco Volpi, Tino Bianchi, Romolo Valli, Enrico Maria Salerno.
Ernesto Calindri e Franco Volpi furono famosi anche perché protagonisti in TV di un noto filmato di Carosello ambientato al circolo dei nobili. Sollevando militarmente i talloni, i due gentiluomini ripetevano, ora l’uno ora l’altro (disapprovando il presente), la loro famosa battuta: “Dura minga, dura minga!
Non si può non accennare a CAROSELLO,
contenitore di annunci pubblicitari che in Italia diventò
una vera e propria istituzione, rivelandosi per tutti,
grandi e piccoli, uno spettacolo davvero godibile. Dopo il
telegiornale delle 20,30 c’era Carosello. I bambini
potevano vedere Carosello ma poi, era d’obbligo, via a
letto. Trasmesso tutti i giorni dal 1957 al 1977,
Carosello contribuì a rendere la pubblicità una parte
essenziale della comunicazione mediatica. Per pubblicizzare
vari prodotti si susseguivano quattro o cinque filmati
molto divertenti (separati ognuno da un siparietto), con
attori molto conosciuti che oggi chiamiamo testimonial, o
dei cartoons con vari piccoli personaggi, spesso doppiati da
bravi attori (Lino Pandolfi, Antonella Steni ecc.), come ad
esempio i famosi Toto e Tata, Carmencita e Caballero, il
pulcino Calimero ecc. Carosello insomma era un grande
divertimento per tutti, bambini e adulti.
In casa ancora ci si divertiva con le feste, le famose
FESTE IN CASA. Sia i ragazzi, ma soprattutto le ragazze,
organizzavano feste in casa e si ballava al suono del
giradischi, dischi a 78 giri da cambiare ogni volta che la
musica finiva. Qualcuno si preoccupava di cambiare il disco
a seconda delle richieste: - Metti un lento – No, metti uno
svelto – Metti un mambo ecc. Appena il disco si fermava,
ogni ragazzo ringraziava la ragazza per aver accettato di
ballare con lui e la riaccompagnava al suo posto. Quando
iniziava il nuovo disco i ragazzi subito correvano ad “invitare
a ballare” le ragazze. “Permette signorina?”
diceva il ragazzo. Senza “invito” infatti la ragazza
non poteva ballare ed era certo disdicevole che fosse lei a
proporre di ballare a un ragazzo. Se però conosceva bene la
ragazza ed erano amici, per “invitarla” ovviamente usava
allora una formula più confidenziale, diceva soltanto: “Vuoi
ballare?”, o semplicemente:
“Balliamo?”. A volte anche tendeva semplicemente la mano
verso di lei senza bisogno di dire niente. E comunque anche
questa era una forma di “invito”.
Per poter ballare, nelle case, si spostavano mobili, tavoli, poltrone, per fare spazio. Non c’erano ancora negli appartamenti i cosiddetti saloni di oggi. In alcune case più piccole e modeste, veniva svuotata una stanza, le sedie venivano messe tutte in fila addossate alle pareti, e in mezzo si ballava con tutti gli altri seduti intorno, anche genitori zii e nonni, che guardavano sospettosi tutto e tutti! Diciamo pure che era molto penoso.
Ogni famiglia in genere si adattava a sopportare in casa questo disturbo di spostamenti e affini e non solo questo. A carnevale il disturbo raddoppiava perché l’indomani si faceva tanta fatica a scopare, niente aspirapolvere ancora, quella miriade di coriandoli e stelle filanti che era rimasta sparsa sul pavimento e sotto i mobili. Dopo qualche mese venivano fuori ancora coriandoli da qualche recondito angolo.
Anche i cosiddetti “grandi” partecipavano alle feste in casa, sia i padroni di casa che altri genitori di ragazze e ragazzi perché venivano volentieri ad accompagnare i figli in quanto le famiglie in genere si conoscevano. I grandi indubbiamente si divertivano anche loro: non solo guardavano i giovani ballare, ma molto spesso ballavano anche loro mazurche valzer e tanghi, o conversavano o giocavano a carte. Qualche papà a volte si destreggiava a guidare la quadriglia e tutti dovevano seguire i suoi ordini: a droit, a gauche, au contraire e compagnia bella.
D’estate le feste si facevano di sera sulle terrazze. Bellissime le FESTE IN TERRAZZA! Si portava il giradischi in terrazza e si ballava. Era molto più bello perché c’era più spazio e meno luci… Quando i fidanzatini ballavano un lento, il ragazzo stringeva a sé la ragazza, nei tratti più bui poggiava teneramente la sua guancia a quella di lei e le stringeva la mano poggiandola sul suo cuore! Attenzione ai genitori! Appena perciò la coppia tornava nella zona più illuminata le guance si staccavano! A volte, pur non essendo fidanzati, il ragazzo cercava comunque di stringere a sé la ragazza ma se lei non ci stava naturalmente subito esclamava: “E piantala!” mentre con la mano spingeva decisa la spalla del ragazzo per farlo scostare!
Grande svago fuori casa era la passeggiata. Ma sì, proprio la semplice passeggiata, il cosiddetto struscio, grande diversivo dei reggini. Nei vari pomeriggi della settimana o la domenica mattina dopo la messa, la passeggiata sul Corso Garibaldi era d’obbligo. Stranamente, per consueto uso, le signore o le ragazze passeggiavano sempre sul marciapiede che rasentava il Teatro Comunale, i ragazzi sul marciapiede opposto. Se, per caso, una ragazza attraversava per andare forse in un negozio che stava sull’altro marciapiede, poveretta, era criticata da tutti perché si diceva che voleva mettersi in vista e quindi giudicata civetta. Anche quando da sotto l’orlo della gonna spuntava di qualche centimetro il merletto della sottoveste, indumento intimo peccaminoso, la donna era giudicata civetta. Passeggiando sfasulati sul Corso, i baldi latin-lover reggini a volte sostavano in qualche angolo o incrocio, ma in genere preferivano fermarsi a gruppetti davanti al Teatro Comunale e via con i commenti spesso terribili sulle ragazze che passavano.
Durante la passeggiata due dunque gli spassi gratuiti e quindi molto diffusi fra i ragazzi ma anche fra gli adulti: il pettegolezzo e il farsi ‘jabbu dei difetti e delle debolezze altrui.
Ma sul Corso s’incontravano inoltre gli amici, si guardavano le vetrine dei negozi, le donne si squadravano, gli uomini squadravano le donne. Un vero latin-lover reggino oltre a fissare con insistenza una bella donna, normalmente poi si girava sempre a guardare bene anche gambe e fianchi.
Super diversivo per tutti era entrare nei grandi magazzini, Standa o Upim, spesso solo per guardare, senza comprare, la merce esposta sui banconi. Nessuna noiosa commessa ti avrebbe chiesto con voce stridula:”Vuliti carchi cosa?” come accadeva invece se entravi in un negozio.
Durante la passeggiata sul Corso nascevano le simpatie, iniziava il corteggiamento e nasceva l’amore. Per i ragazzi il più classico modo di corteggiare una ragazza che non conoscevano, era quello di “seguirla” durante la passeggiata, cosa probabilmente non in uso in tutte le città.
- “Quello prima mi ha guardato fisso e poi mi vinni arretu, ma ieu fici accuntu chi n’o vitti”. Era facile che una ragazza facesse, diciamo pure con orgoglio, questa confidenza alle amiche.
Quando un ragazzo seguiva una ragazza un po’ da lontano, a volte anche sul marciapiede opposto, per tutto il tempo della passeggiata, significava che la ragazza lo interessava, gli piaceva, e quindi sia guardandola fisso negli occhi, se le passava vicino, sia soprattutto seguendola, dimostrava così il suo corteggiamento e la ragazza ne era orgogliosa. La cosa continuava per diversi giorni, cioè per diversi chilometri! Fino a quando finalmente un giorno, avendola incontrata da sola, a seconda se la ragazza, nei giorni precedenti, con tutto un sistema di sguardi l’avesse incoraggiato o no, trovava l’ardire di “fermarla”, per farle la sua brava “dichiarazione” d’amore. “Fermata” e “dichiarazione”! Decisive manifestazioni conclusive del corteggiamento.
La classica dichiarazione cominciava così: “Signorina, dal primo momento che l’ho vista mi sono innamorato di lei”. Stupendo! Pensate che quando, durante qualche gioco di gruppo, un ragazzo doveva “pagare pegno” cos’è che gli si faceva fare? La dichiarazione a una ragazza del gruppo. Così imbarazzati arrossivano tutti e due quando lui, come tradizione, doveva pronunciare le fatidiche parole: “Signorina, dal primo momento che l’ho vista…”.
- “Sai? Chiddu chi mi vinni darretu un saccu ‘i tempu, ieri m’ha fermata e m’ ha fatto la dichiarazione - raccontava alle amiche la ragazza.
- “E certo – rispondeva con disapprovazione qualche amica invidiosa – tu ‘u guardasti!”.
In effetti se una ragazza, invece di stare con gli occhi bassi o rivolti altrove, ricambiava decisamente subito lo sguardo insistente del ragazzo, ecco che lui si sentiva molto incoraggiato a “fermarla” per “dichiararsi”, per manifestarle la sua simpatia che poteva diventare amore. Però per molti non era da ragazza “seria” ricambiare subito lo sguardo, ma indice di civetteria. Lo stesso ragazzo poteva giudicare male la ragazza che subito ricambiava il suo sguardo, significava che era una che “ci stava” subito. E allora? Se una brava ragazza “seria” era interessata a quel ragazzo che la guardava insistentemente e la seguiva, come si doveva comportare per farglielo capire? E beh, bisognava saperci fare. E qui iniziava tutto un cerimoniale. Dandosi un contegno la ragazza doveva cercare di ricambiare quello sguardo senza però rischiare giudizi negativi. La prima volta doveva essere un’occhiata velocissima e subito dopo, sbattendo le ciglia, la ragazza doveva guardare altrove. Doveva cioè far pensare che per caso i suoi occhi si erano incontrati con quelli di lui. La seconda volta il suo sguardo poteva durare qualche secondo in più ma subito doveva abbassare gli occhi con evidente timidezza rossore e imbarazzo. La terza volta e la quarta volta forse poteva permettersi di reggere lo sguardo del ragazzo un po’ di più. E via dicendo. In questo modo il ragazzo non avrebbe pensato male di lei ma si sarebbe semplicemente sentito orgoglioso di aver destato il suo interesse.
“Basta saperli prendere gli uomini e li raggiri!” dicevano le nonne.
Dopo qualche tempo (e già, un po’ di tempo la ragazza lo doveva far passare, non si poteva dire subito di si a un ragazzo, altrimenti si era giudicate poco serie) inziava il fidanzamento e i due cominciavano a darsi degli appuntamenti Però erano fidanzati di nascosto, o come si diceva a Reggio, erano ziti a mmucciuni, cioè all’insaputa dei rispettivi genitori, per cui s’incontravano in posti non tanto frequentati per evitare di farsi vedere insieme in giro, altrimenti la gente avrebbe mormorato… e la cosa poteva arrivare alle orecchie dei genitori. Chiaramente quando la ragazza usciva per incontrarsi con il ragazzo, ai suoi diceva una bugia, diceva ad esempio che andava a studiare a casa di un’amica. Però se la cosa da qualcuno veniva riferita ai suoi genitori erano dolori! Per i maschi il problema quasi non esisteva, infatti tutte le mamme dei maschi o quasi tutte, se eventualmente qualche amica pettegola riferiva loro di aver incontrato i du’ ziti insieme, rispondevano molto tranquille: “U miu masculu è” e in questa frase erano sottintese tante cose: che ai maschi era permesso tutto e alle donne no, e soprattutto che nel rapporto uomo-donna chi correva il pericolo di rimanere incinta, era la ragazza, ‘u masculu no. Erano le ragazze perciò a patire tanto a causa dell’eventuale pettegolezzo riferito ai genitori, rischiavano cioè di perdere non solo quel poco di libertà loro concessa ma anche il loro grande divertimento: niente più passeggiata con le amiche. I ragazzi al massimo potevano essere rimproverati dai genitori se notavano che il figlio si stava troppo distraendo dallo studio.
Perfino quando si confessavano in chiesa le ragazze pativano più dei ragazzi. Intime tenerezze fra fidanzatini? Grande peccato mortale! Se era un ragazzo a confessare questo peccato (non credo che oggi sia più argomento di confessione…) i confessori erano molto comprensivi, un Padre Nostro e un’Ave Maria per penitenza. Se invece era la ragazza a confessare la medesima cosa allora erano prediche a non finire e cento Padre Nostro e quaranta Ave Maria per penitenza!
Passato un po’ di tempo di fidanzamento a mmucciuni, il ragazzo serio a volte decideva di andare a spiegarsi, cioè a parlare del suo amore con i genitori della ragazza, o preferibilmente prima solo alla mamma di lei avrebbe spiegato le sue intenzioni. Ecco, adesso le cose cambiavano: il ragazzo aveva manifestato apertamente le sue “intenzioni serie”, si era spiegato in famiglia. Ora gli veniva permesso qualche volta anche di andare a casa della ragazza a trovarla. Il fidanzamento non era più a mmucciuni ma ufficioso. Non ufficiale, perché i genitori di lui non si erano ancora presentati alla famiglia di lei. Solo quando i genitori del ragazzo si sarebbero recati a casa della ragazza per, come si diceva, chiedere la sua mano ai suoi genitori, il fidanzamento diventava ufficiale. E questa era la grande meta di una ragazza per bene. Comunque, anche così, con il fidanzamento ufficioso, i genitori della ragazza in genere si accontentavano. Eh si, non si poteva sempre andare tanto per il sottile, bisognava farla sposare prima o dopo ‘sta figlia, guai se una figlia femmina non riusciva a sposarsi. Non si poteva mandare via un probabile pretendente che aveva mostrato, sebbene ufficiosamente, intenzioni serie. Bisognava accettare qualche compromesso! E poi aspettare. “col tempo” sarebbero venuti anche i genitori del ragazzo, la grande speranza. Normalmente intanto la mamma della ragazza si accontentava del fidanzamento ufficioso, meglio che niente. Il padre della ragazza però diciamo non doveva saperne niente. A lui la moglie e la figlia dicevano che quel ragazzo che ogni tanto frequentava la loro casa, era solo un amico. Eh si, il povero padre, l’Uomo della famiglia, il Capo-famiglia, non avrebbe potuto accettare l’ufficiosità, che figura avrebbe fatto altrimenti con parenti e amici?! Prima o dopo però il padre capiva come stavano le cose, e però, per evitare il famoso andante “la gente mormora”, continuava a far finta di non sapere. La mamma invece non faceva testo (le donne contavano poco), lei si poteva accontentare dell’ufficiosità e anzi spesso confidava anche con orgoglio alle amiche: - Me’ figghia si fici zita pirchì iddu cu’ mia si spiegau! - però con ipocrisia subito dopo aggiungeva - Ma me’ maritu non sapi nenti – anche se il marito sapeva tutto. Comunque, in ogni caso, il fidanzamento ufficioso era diciamo già qualcosa di abbastanza serio. Infatti spesso suscitava l’invidia di qualche parente o amica (probabilmente mamma di una ragazza non fidanzata nemmeno ufficiosamente) che spettegolava con aspra sintesi e cattivo tono ironico:
- Figurati! Si spiegau! Non sulu ‘u giuvinotto non havi lavoro, ma i soi ancora non si presentaru! Chiddi però subitu s’u trasiru intra! - Voleva dire che gli interessati genitori della ragazza, in vista o augurandosi un eventuale futuro matrimonio, avevano accolto e “fatto entrare” subito il ragazzo in casa loro, cioè gli avevano permesso di frequentare la loro casa, senza che i genitori di lui si fossero fatti vivi. Cosa molto disdicevole. Alla ragazza, fidanzata quasi ufficialmente, adesso veniva permesso anche di uscire qualche volta con il ragazzo per la passeggiata sul Corso, però sempre accompagnata da qualcuno, sia pure da un fratellino o sorellina, se non dalla mamma, tipo io mammeta e tu… D’estate la passeggiata con mammà i fidanzatini la facevano in Via Marina e spesso si prolungava un po’ di più perché era molto piacevole sedersi su una panchina sotto l’ombra di un gigantesco ficus magnolioides dalle lucide e ampie foglie e, guardando il mare e Messina di fronte, sperare, chissà, di vedere la Fata Morgana a cui il poeta Ibico cantava i suoi versi suonando la sambyke. Di sera poi, quando possibile, molti si sedevano al bar a sentir suonare l’orchestrina. In vari bar del lungomare infatti si era ormai diffuso l’uso di ingaggiare un orchestrina (tre o quattro elementi), che veniva sistemata su un palchetto di legno, e si esibivano anche dei cantanti. Le canzoni più richieste? “A luna rossa”, “Serenata celeste” e “Perfidia” ma non mancava mai naturalmente “O sole mio” e qualche vecchio motivo come “Maramao perché sei morto”, “Ba ba baciami piccina”, “Pippo non lo sa”.
Anche alla Villa Comunale la gente spesso si recava al pomeriggio per trascorrere qualche ora. Qui naturalmente molte mamme portavano i bambini per farli giocare o per farli divertire sia davanti alle gabbie del piccolo zoo sia sulla piccola giostra, dopo averli accontentati prima comperando loro un cono-gelato da Giannetto, il bar di fronte alla Villa con quella strana insegna luminosa: una specie di Pinocchietto giallo e rosso che, per un congegno nascosto, tirava fuori di continuo una lingua rossa rossa e leccava continuamente un cono giallo giallo! Ai bambini più grandicelli le mamme raccomandavano sempre di non allontanarsi e di non andare mai da soli sulle collinette della Villa, zone piuttosto recondite e solitarie, dove si poteva incontrare l’uomo cattivo che apriva l’impermeabile!
I giovani di allora non avevano molte disponibilità finanziarie, quindi difficilmente la sera potevano cenare fuori, o semplicemente, come avviene oggi, andare in pizzeria.
· Molto limitato infatti era a Reggio il numero dei RISTORANTI o delle pizzerie. Di bettole e taverne invece ce n’erano tante, dove gli uomini di una certa età, lasciata la moglie a casa, fra un bicchierotto di vino e una partita a tressette, passavanu ‘a serata. Quando si aprì la pizzeria “Al Giardino” nella breve discesa che, rasentando il Museo, arriva in Via Marina, fu un avvenimento. I tavoli, pochi, erano sistemati fuori sul marciapiede, chiusi d’inverno in una specie di veranda a vetri e contornati da grandi vasi con alte piante verdi. Andare a mangiare la pizza “Al giardino” per me era veramente un grande divertimento e sotto lo sguardo severo di mamma cercavo anche di stare in maniera educata a tavola e di usare bene le posate! Ma massimo divertimento era poter cenare nel ristorante del traghetto durante la traversata, cosa molto esclusiva. Sulla nave il ristorante era necessario (per chi se lo poteva permettere naturalmente) perché la traversata in quegli anni durava di più, c’era il tempo per cenare. Infatti i viaggiatori che venivano dal nord in treno, una volta sistemati i vagoni sul traghetto, potevano scendere dal treno e salire al piano superiore per cenare comodamente nell’elegante ristorante d’o ferribbotti.
Se un traghetto impiegava un certo tempo per arrivare a Messina, figurati quanto impiegava lo Zatterone ad attraversare lo Stretto! E già, proprio così, negli anni ’40, poiché i traghetti erano pochi, la traversata spesso si doveva fare su dei grossi zatteroni dotati di un telone di copertura che li chiudeva solo per tre lati.
Mariella Di Pasquale
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