In quel tempo,  a Reggio, circolavano parecchi   tipi  strani, soggetti spesso a scherni e burle. Bastava solo che un uomo, non importa se ragazzo o adulto,  portasse i capelli appena un po’ lunghi dietro sul collo (non certo lunghi come quelli dei cosiddetti capelloni che ancora dovevano nascere!) e già subiva beffe e derisione essendo considerato un tipo bizzarro se non addirittura diverso.

Perché portare i capelli  cortissimi col cozzetto e sfumatura alta, con quella parte insomma fra collo e nuca  sempre ben rasata dal barbiere, era giusta  prerogativa prettamente maschile, dei maschi veri, di chi aveva fatto il militare, altrimenti si rischiava di essere considerati come femminucce, anzi meglio dirlo in reggino: essiri pighiati  pi’  fimmineddi.

Nicola Giunta portava i capelli appena lunghi ma era giustificato, la sua  bizzarria era tipica dell’ uomo d’arte. Con i suoi versi satirici,  scritti  in un dialetto denso di sanguigna corposità e penetrante acutezza,  fu lui a  deridere i reggini, soprattutto “i storti” (scemi) che comandavano. Lo chiamavano ‘U Poeta ma con rispetto perché Giunta era un vero poeta e perciò poteva permettersi quell’insolita stravaganza: i capelli bianchi, dietro sulla nuca, gli scendevano fino a sfiorare il colletto della giacca, dando così  alla sua figura imponente, insieme anche all’allegro papillon che a volte gli piaceva portare, un’impronta giovanile che rendeva  meno  solenne quella sua tipica espressione austera.

Il cosiddetto “Poeta balia” chiaramente non era un poeta. Lui le poesie non le componeva, le recitava, perciò  lo chiamavano “poeta”, però con l’aggiunta di “balia”, per divertirsi a prenderlo in giro, come a  dire che, non essendo ancora cresciuto, aveva ancora bisogno della balia per allattare come un neonato! “Va’ ‘ddatta!” si dice infatti a Reggio a qualcuno che, come un neonato non ha capito niente e deve ancora imparare tutto della vita. Per essere precisi ‘u poeta balia non  voleva essere un poeta, a  lui piaceva semplicemente declamare versi a memoria, in particolare versi di grandi poemi.

Come lavoro comprava e vendeva libri usati. La sua bancarella, piazzata davanti alla chiesa di San Giorgio, angolo  del marciapiede sul Corso Garibaldi a sinistra della chiesa, era chiusa dalla parte di dietro da una specie di parete di vecchio legno tarlato da cui un tettuccio  scendeva come riparo per i libri, e ai lati, a protezione da vento e pioggia, pendevano due teli o forse due cartoni.

U poeta-balia  così  rimaneva anche lui abbastanza riparato  in caso di mal tempo. 

Nelle giornate di pioggia,  senza clienti, dopo aver coperto i vecchi libri con una tela cerata, lui stava lì, seduto dietro il bancone sotto il tettuccio, a recitare da solo, tristemente, a voce alta, la Divina Commedia, o la Gerusalemme Liberata, tutto a memoria. I pochi passanti sotto l’ombrello, si guardavano intorno, a volte neanche lo vedevano e perciò non capivano da dove venisse quella voce monotona che recitava versi. Nelle sere d’estate, invece, andava a volte a declamare fra i tavolini del Caffè Lo Giudice sistemati all’aperto sul marciapiede davanti al bar,  sulla Via Marina alta, prima però che l’orchestrina, sistemata sopra un palchetto di legno, cominciasse a suonare per allietare ogni sera i clienti del bar e i passanti.

 

Ma ecco ormai l’ora fatale è giunta,

che il viver di Clorinda al suo fin deve,

    spinge egli il ferro nel bel sen di punta

    che vi s’immerge e ‘l sangue avido beve

 

- "Mannaja chi camurria! Arrivau ‘u poeta balia! - brontolava ridendo qualche cliente – ‘i traversu m’ 'a fa gghjri  ‘sta mezza granita!”.

Si racconta che un ragazzo reggino, per racimolare qualche soldo, pensò di vendere al poeta balia la sua vecchia Enciclopedia del mare. Naturalmente u poeta balia non volle comprarla  dicendo che sarebbe stato molto difficile rivenderla. Il ragazzo allora ideò un bel tranello. Per almeno due o  tre mesi mandò dal poeta balia vari suoi amici, in giorni diversi, a chiedere se per caso aveva da vendere un Enciclopedia del Mare e quel poveretto rispondeva sempre di no. A questo punto, dopo circa tre mesi, si ripresentò a lui il ragazzo chiedendogli se per caso avesse cambiato idea riguardo l’acquisto della sua Enciclopedia del Mare e quello la comprò subito. Per anni e anni l’Enciclopedia restò esposta sul bancone, ‘u poeta balia non riuscì mai a venderla!

 

Molto spesso, specialmente alla domenica,  sul Corso  passeggiava  un altro tipo strano, detto Mister Reggio, ovvero il cavaliere Cento che faceva il sarto, la sua sartoria credo fosse ubicata  tra via Filippini e Via Aschenez. Capelli un po’ lunghi sul collo,  ghette bianche, giacca a scacchettoni bianchi e neri o di colori sgargianti, bastoncino di canna di bambù brandito con sicumera e in testa un basco o nei mesi caldi una paglietta. Così si presentava Mister Reggio a passeggio sul Corso e la gente si divertiva a squadrarlo e a canzonarlo. Per farsi ancor di più guardare da tutti,  a volte si faceva portare  in carrozza sempre sul Corso su e giù,  stando in piedi, così era più visibile, papariato come una miss, e per questo tutti lo chiamavano Mister Reggio. Qualcuno, ridendo di lui, gli chiedeva: “ ‘I quali Comitatu fùstivu elettu?!”.

 Anche una donna spesso era bersaglio  degli sberleffi dei ragazzi.  Camminava e camminava per le strade della città  vagando senza meta e gridava parolacce a voce alta o ti poteva tirare i capelli o afferrarti per la manica del cappotto. Ai bambini faceva tanta paura. Si chiamava Maria Ciaciolla. Alta, gambe lunghe, occhi azzurri, dal suo viso traspariva ancora  l’antica bellezza, ma la pelle  ormai avvizzita era coperta da una ragnatela di rughe. Chiaramente non ci stava più con la testa, si credeva ancora  una ragazzina e portava sempre, con inutile civetteria, un malinconico fiocchetto di velluto nero sui capelli grigi lasciati incolti e lunghi sulle spalle. Molti anni dopo, poveretta, l’ho vista circolare per strada  su una sedia a rotelle spinta da una suora caritatevole.

 

Sui traghetti Reggio-Messina / Messina-Reggio o Villa S.Giovanni-Messina e ritorno, altri due tipi strani, soprannominati  Palè e Peri 'i pompa, suscitavano l’ilarità dei viaggiatori: uno suonava il mandolino e l’altro la chitarra.

Peri ‘i Pompa era  nipote di Palè e non è che sapesse suonare bene la chitarra. Il vero storico suonatore e cantante era Palè.  Infatti, buon verseggiatore, aveva formato un trio con Don Peppino ‘u russeddu buon suonatore di chitarra e con Don Vittorio ‘u janculinu (detto così perché albino) bravissimo suonatore di mandolino. Davano spettacolo per strada o a fine giornata in qualche bettola.  Però sulle navi traghetto si vedevano  solo  Palè e Peri ‘i pompa. Il fatto è che Palè, accompagnava spesso  il nipote presso un famoso ortopedico di Messina sperando che il luminare  potesse raddrizzare al nipote i piedi  chi vannu all’indentro diceva Palè! Durante la traversata dello Stretto, andata e ritorno, Palè suonava il mandolino e Peri ‘i pompa la chitarra, così riuscivano a raccogliere almeno i soldi spesi per il viaggio. Malgrado i vari viaggi dall’ortopedico, per Peri ‘i pompa comunque non ci fu niente da fare, i piedi restarono storti e continuò a camminare sempre con difficoltà. Ma  ancor  più grande problema  era quello di trovare delle scarpe adatte ai suoi piedi. Pare che Palè, per aiutare il nipote e cercare di farlo camminare decentemente, gli avesse fatto “su misura”, secondo la sbilenca forma dei piedi, due suole ritagliate dalla gomma di un copertone da cui partivano dei legacci  che,  stretti intorno alle caviglie, riuscivano a tenerle ferme  sotto i piedi! Ecco perché veniva chiamato Peri ‘i pompa (piedi di gomma).

A Carnevale  il trio storico Palè, Peppinu u’ russeddu e Vittorio u’ janculinu  vestiti di bianco con in testa tre strani cappelletti, approfittava  per dare spettacolo in strada e spesso,  in mezzo al capannello di gente che si formava intorno a loro, Palè osava anche divagare con varie battute spiritose dirette a qualcuno degli spettatori che per caso lo aveva colpito particolarmente. Per attirare l’attenzione della gente Palé, esperto istrione di strada,  si tingeva inoltre   la faccia di rosso e,  alla maniera diciamo di un  sindaco, esibiva, in trasversale sul petto,  un’ allegra fascia rossa che dicevano fosse stata cucita  d’ ‘a zietta,  disponibile prostituta amica di Palè!  I tre strani musicanti dunque ci sapevano fare, benché ignoranti avevano comunque ben capito, da esperti attori di strada, come ci si doveva vestire e truccare per poter attirare più facilmente l’attenzione dei passanti. La gente di spettacolo,  teatro,  cinema o  TV, proprio per questo anche oggi indossa spesso dei vestiti diversi dal normale, modelli bislacchi, cravatte sgargianti, proprio per attirare gli sguardi e distinguersi dagli altri.

La gente si divertiva a guardare e a sentire quei tre strani suonatori e forse rideva di loro, ma tutto sommato fra quella stessa gente i tre riuscivano a raccogliere i soldi per campare.  Pare abbiano avuto anche un buon maestro, una specie di padre-guida per loro,  che li aveva ben istruiti  a suonare, cantare e a dar spettacolo.

D’inverno Palè, basso e robusto, indossava sempre uno scuro cappotto lungo, una specie di palandrana, una zimarra logora e poco pulita nelle cui tasche non mancava di tenere delle pietroline che scagliava regolarmente contro i ragazzini che lo sfotticchiavano e si divertivano a prenderlo in giro.

Era  lui sempre lo  spirito  animatore  del trio e per stare vicino agli amici,  dalla zona  della  Rotonda di S. Paolo dove abitava, si trasferì alle Sbarre, dove abitavano gli altri due. In un primo tempo trovò casa dalle parti del Ponte S.Pietro e dopo invece andò ad abitare più  vicino ancora ai due amici in una baracca costruita proprio per lui, da un amico falegname, nel vicolo do’ Bardaru, detto così perché in quel vicolo abitava un artigiano che faceva “bardi”, basti, ovvero grosse e rozze selle di legno.  ‘U russeddu abitava esattamente al Rione “Marconi” (nome dedicato non a Marconi lo scienziato ma  a un militare decorato con medaglia d’oro)  che si raggiungeva   percorrendo  Via Traversa Ventitreesima e  poi ‘na vinedda, una breve  stretta strada che arrivava anche alle  case basse del Rione “Cusmani” (sempre nome di un decorato medaglia d’oro) dove abitava u’ janculinu. Perciò i tre vennero chiamati anche I tri da’ vineddazza!

Palè  morì di morte naturale, ‘u russeddu investito da una bicicletta (sic!) e ‘u janculinu investito,  mentre se ne scendeva tranquillo per la  discesa che rasenta la Banca d’Italia verso la Via Marina, da una grossa ruota di scorta che, staccatasi da un  camion in Via Possidonia, andò rotolando rovinosamente per tutta la discesa di Via Palamolla fino a sbattere come una valanga contro quel poveretto uccidendolo!

 

Qualche anno dopo un altro tipo strano si cominciò a vedere sul Corso o nei bar. Vestito sempre con abiti scuri portava i capelli nerissimi abbastanza lunghi, tipo  “alla bebè” con la frangetta (forse una parrucca) e con la mano  tirava  abilmente in aria, per poi riprenderlo, un bastoncino nero, o lo faceva girare velocemente tipo Charlot. Qualcuno dice che era un ingegnere, altri sostengono che era un barone. Portava a volte un monocolo e si capiva che era gay. I ragazzi si divertivano a prenderlo in giro  e lo chiamavano Caramella proprio per quel monocolo.

    

Altri personaggi di Reggio, se non proprio strani erano però parecchio particolari, tanto da divertire la gente e suscitare risate come Ciro che ormai fa parte veramente di certe tipiche istituzioni reggine! Le sue gesta ancora oggi si raccontano ridendo. Ciro aveva un bel bar sul Corso, di fronte al palazzo della Provincia, con i tavoli da biliardo sotto nel seminterrato. Dalla strada, attraverso le finestrelle basse, a livello marciapiede, si potevano vedere giù quelli che, tra una nuvola di fumo di sigari e sigarette, giocavano con biglie e stecche su quei grandi tavoli di buon legno di mogano ricoperti di panno verde. Nel suo bar lavoravano anche le sue sei-sorelle-sei. La  particolarità di Ciro consisteva nel cercare con buona volontà di parlare in italiano e non in dialetto. Oggi i reggini parlano con gusto il loro dialetto.  Se due amici reggini s’incontrano in un’altra città provano veramente un’intima soddisfazione a parlare in dialetto riggitano sfoderando una fraseologia e una terminologia che risale a memorie infantili. All’epoca però, anni ’40-‘50, anni lontani dall’odierna e benefica rivalutazione dei dialetti, molti reggini invece (fortunatamente non certo tutti) diciamo che quasi si vergognavano di parlare in dialetto; qualche bambino, per strada o in qualche negozio, addirittura tirava subito la gonna della mamma che stava parlando in dialetto, per avvertirla affinché si zittisse o cercasse di parlare in italiano dato che vicino a loro aveva intravisto la maestra o qualche compagno di scuola che poteva sentire! I reggini poi emigrati nel nord Italia, in Piemonte o in Lombardia, vergognandosi del loro dialetto, cercavano di assorbire in qualche modo la parlata della Regione che li ospitava e quando tornavano a Reggio in ferie, addirittura cercavano di sfoggiare  un accento e una pronuncia che volevano essere nordici (tentavano soprattutto di addolcire la esse e di pronunciare le vocali per quanto possibile più chiuse) ma il loro sforzo era vano, si sentiva subito che era un accento artefatto con pronuncia riggitana.  Chissà perché i meridionali hanno sempre cercato di acquisire in qualche modo l’accento nordico. Non mi sembra di aver mai sentito un settentrionale che, trasferitosi al sud, abbia cercato volutamente di imitare l’accento calabrese o siciliano. Il fatto è che il nordico probabilmente si è trasferito al sud per sua scelta, invece il nostro emigrante “sudico”, a suo tempo, fu obbligato dal bisogno a lasciare la sua terra per cercare lavoro. La condizione d’inferiorità quindi dei nostri emigranti, è chiaro che poteva portarli all’emulazione, ma forse, inconsapevolmente, quei poveretti (che hanno sopportato penose esperienze molto simili, potremmo dire, a quelle degli odierni extra-comunitari) subivano anche il fascino del suono di quel linguaggio così diverso che alle rozze orecchie di un povero contadino, strappato dolorosamente alla sua terra, suonava  senz’altro molto raffinato e quindi da imitare.  

Un giorno nella sala da biliardo del suo bar dove, benché il gioco fosse proibito ai minori di diciotto anni, anche i ragazzi di età inferiore, fingendo di essere più grandi, andavano spesso a giocare   per una questione di prestigio… (e già,  per figura un giovanissimo cercava di andare a giocare al biliardo, così avrebbe dimostrato di essere già un adulto!), Ciro, nel suo studio, seduto con le carte in mano, stava giocando a briscola con degli amici ed era proprio arrabbiato perché stava perdendo. A un certo punto gli arrivò finalmente la donna di briscola:  “Buttana - esclamò - non avrebbimo perso si fussi vinuta prima!”

In un negozio di tessuti sul Corso un giorno Ciro stava aspettando che l’amico, padrone del magazzino, si sbrigasse a vendere un taglio di stoffa a una cliente per poter poi andare con lui a giocare a carte. Ciro bighellonava avanti e indietro, guardava questo tessuto e quell’altro ( a lui piaceva tanto vestire bene) e ogni tanto alzava gli occhi al cielo sbuffando. Alla fine, stanco di aspettare, disse all’amico serio serio in buona… lingua italiana…: “Io, astramente, me ne vado a bere qualcosa al bar”. (Ẻ chiaro: aveva tradotto in italiano l’espressione dialettale ‘ntramenti  ( intanto, nel mentre).

Alle sorelle che lavoravano con lui nel bar, una sera, prima della chiusura, disse:

- Prima raccontate le paste chi ristaru e poi chiudimu e ‘ndi jmu pi’ casi -

Ciro si papariava spesso alla guida della sua Lancia nuova e splendente.

- E com’è chi ccattasti ‘na Lancia e non ‘na Fiat? – gli chiese un amico –

- Pirchì i spurteddi da’ Fiat, quando ti fermi vicinu o’ marciapiedi, ‘mburrunu ‘nto bizzolu! -

 

Di molti altri reggini si racconta che cercassero di parlare in qualche modo in buon italiano, vergognandosi di conoscere solo il dialetto.

Un giorno, era il primo o il due novembre, uno di questi tipi, dicono che fosse parente di un monsignore, volendo  comprare  quei piccoli dolcetti che si fanno a Reggio in novembre, chiamati  morticeddi, entrò in una pasticceria,  pensò un po’  prima di parlare  e poi  chiese:

- Per cortesia mi date due etti di defuntini?.

Quei lividi che ci si può procurare battendo  una parte del corpo in qualche posto, come sappiamo a Reggio si chiamano mulingiani, perché  di color violaceo  come quello della melanzana.  Voglioso di buona lingua italiana, un tizio, pare  un certo Leonardo di San Gregorio, così disse al rosticciere:

- Per favore vorrei un chilo di lividure fritte e un etto di ‘livi ‘ncolumi (il contrario di ‘livi schiacciati).

 

Le tre persone plurali dell’imperfetto del verbo essere in dialetto suonano: “Nui erumu, vui erivu, iddi erunu”. Festa ‘i Maronna, pellegrinaggio al Santuario  dell’Eremo. Così disse, in buon italiano…, il solito tizio appena arrivato all’Eremo: “Ecco, siamo giunti all’eravamo”!

  

E la signora benestante, tipica parvenue, per le cure a Montecatini, mance qua e mance là, al cameriere che le portò una fetta di torta con coltellino e forchettina disse:

- Io non mangiu ‘u durci co’ tagghiacarti!

Fra certi tipi particolari potrebbero rientrare anche  tre ragazze che abitavano in Via Sbarre. Le chiamavano  ‘i tri testi  perché, siccome il padre non le faceva mai uscire, allora per cercare di vedere il mondo, tutte e tre stavano  per  ore a guardare la strada e la gente che passava al di là del muro di cinta del loro giardino. Un muro abbastanza alto, tanto che delle tre sorelle la gente, dalla strada, poteva vedere soltanto le teste! Solo quelle superavano il muro! E perciò tutti le guardavano ridendo e  le chiamavano i tri testi! Queste povere ragazze certamente si sentivano come prigioniere. Infatti avevano sempre lo sguardo triste che sembrava dire con rassegnazione: “Chi buliti, chisti simu”.

 

 

Così diversi, come scollati dalla normale realtà,  pure costretti a vivere nel reale, con disagio ma anche con inconscia ribellione, forse potremmo dire che certi tipi di Reggio furono una specie di  beat-generation  riggitana ante litteram.                      

 

Mariella Di Pasquale

 

 

 

 

 

 

 

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