Quanti giochi e quanta inventiva!  Giochi  per piccoli e per  grandi, giochi per maschietti, giochi per femminucce, giochi di gruppo come il “nascondino” (detto a Reggio “a mucciunedda”) o come  il famoso “E’ arrivato un bastimento carico carico di…” e “Allo scambio del gioco…”. Tutti i maschietti, piccoli e grandi, naturalmente si divertivano a giocare al pallone in genere negli spiazzi, per strada o nei cortili delle parrocchie.  Molti ragazzini, che non possedevano ancora una palla di gomma e non avevano soldi per comprarla, giocavano co’ faddu, una palla fatta di pezze di stoffa che certamente non rimbalzava.   Soprattutto maschili erano certi altri semplici giochi: a battimuru,  a quadratu e singa,  a mazza e ligneddu, a patruni e sutta, o ancora, specialmente durante le festività natalizie, i maschietti giocavano con l’accipitotu (dal latino accipe totum, prendi tutto)  o piroci o piroceddu o piroceiu, (dialetti della zona di Reggio Calabria, Brancaleone, Caraffa del Bianco). Era una specie di piccola trottola fatta come un dado di legno con piedino e punta. Arrotando la punta fra pollice e indice si dava la spinta per far girare l’accipitotu come una trottola. Il dado aveva quattro facce su ciascuna delle quali o erano segnati  più raramente dei numeri  e più spesso invece delle lettere: A, P, N, T Accipe, Pone, Nihil, Totum  cioè: A=afferra, P=poni (o posa o paga), N=niente, T=Tutto). A seconda della faccia su cui il trottolino si fermava si potevano vincere  o perdere noccioline o monete.  Se poi con il trottolino si riusciva a centrare quello del compagno sistemato al centro di un cerchio di noccioline, l’ abile giocatore  vinceva o parecchie noccioline o parecchi soldi se i partecipanti al gioco erano adulti e puntavano denaro. Un altro passatempo,  il cosiddetto gioco del “poni”, anche questo molto antico, presente anche in Omero, era giocato particolarmente dai ragazzini che venivano dalle zone della Piana,  da Galatro o da Laureana di Borrello. Somigliava al gioco con l’”accipitotu”, solo che il “poni”, che derivava dal gioco dei dadi, non era di legno, era un astragalo, un osso del piede di un maiale o di un agnello,  sempre con quattro facce. I ragazzini, come posta, usavano le noccioline, gli adulti invece monete. Il gioco dei dadi, che ha tradizioni antiche, risale circa al 2000 a.C. e presto diventò un gioco d’azzardo. Al tempo dei Romani il gioco venne proibito da un editto censorio del II sec. a. C. che concedeva di praticarlo solo in dicembre durante le feste dedicate a Saturno.  Anche in Calabria, molti secoli dopo, pare che  qualche Comune  proibì o cercò di limitare questo gioco.

Nel medioevo il gioco dei dadi si chiamava “zara” (da qui la parola azzardo). (“Quando si parte il gioco de la zara/ colui che perde si riman dolente/ repetendo le volte, e triste impara/ con l’ultimo se ne va tutta la feccia, qual va dinanzi e qual di dietro  il prende/  e qual da lato li si reca a mente/ el non s’arresta e questo e quello intende/ a cui porge la man, più non fa pressa/ e così da la calca si difende” (Divina Commedia - Purgatorio, Canto VI).

Molto femminile  era il gioco del salto con la corda: una bimba poteva saltare anche da sola, o potevano saltare in due con una sola corda,  una di fronte all’altra: una delle due bimbe faceva girare la corda e però dovevano saltare insieme nello stesso istante. Se invece erano  più bambine allora due tenevano ai due capi la corda e la facevano girare, e le altre a turno, o anche in due, “entravano” per saltare mentre la corda girava. Il tutto cantando: “pera arancia fragola e limone”. Naturalmente non mancavano i giochi con la palla cantando “muovere senza muovere” e tanti altri giochi femminili:Alle belle statuette”,  “Commare commare aviti pisella?” (sarebbe il gioco dei Quattro cantoni). “Un due tre stella”,  “Chi tardi arriva male alloggia”, “Al Campanaro”.            

                                                     

Visto che  Reggio era  capoluogo di regione  (allora si era convinti che Reggio fosse il capoluogo della Calabria e veniva scritto anche in certi libri di geografia) i reggini si sentivano evoluti… infatti potevano divertirsi  ad andare, figuriamoci, anche  al CINEMA.   Cinema Moderno,  Cinema Siracusa,  Cinema. Margherita. Al centro della città soltanto questi tre  cinema esistevano, tutti e tre naturalmente sul Corso, ai quali più tardi si aggiunsero prima ‘u Comunali che avrebbe dovuto funzionare  solo come teatro (Teatro Comunale) e invece poi cominciò a funzionare anche come cinema. Molto più tardi nacque  il Supercinema a ridosso della Via Marina Alta. Un po’ decentrati,  più piccoli, più economici e più popolari, c’erano ancora il Cinema Dopolavoro Ferroviario vicino alla Stazione e un po’ più tardi nasce l’Ariston vicino al Campo Sportivo. Funzionavano  bene anche i piccoli cinema delle Parrocchie di San Paolo (La Pergola)  e di Loreto, e  un altro piccolo cinema   nel retro del Palazzo delle Poste, per raggiungere il quale  bisognava prima scendere sulla Via Marina Alta,   quindi si entrava nell’atrio di un portone e poi, dopo aver attraversato  un cortile, si saliva su per le scale e si entrava in una sala con lo schermo in fondo e per gli spettatori  sedie  scomodissime.

Molto esclusivo, nei cinema del centro, l’ultimo spettacolo della sera.  

Vestivano  con eleganza le signore per andare al cinema con i mariti allo spettacolo delle ore dieci (sarebbe stato meglio dire delle ore ventidue, ma a Reggio si diceva: ‘’u spettaculu ri’ deci!). Alle ragazze, da sole, certo non era permesso  andare al cinema (neanche di giorno), invece i ragazzi naturalmente (società maschilista) potevano andarci ed entravano a gruppi di amici. A film cominciato, o forse ancora durante la proiezione del notiziario  “Film LUCE”, capitava spesso di sentire qualche ultimo arrivato che, annaspando fra le poltrone al buio, e infischiandosene degli altri spettatori, nel silenzio cominciava a chiamare a voce alta per nome  qualche amico per capire alla risposta dove quello si fosse seduto e così poterlo raggiungere! “Vicenzu, aundi si’?”, “Cca! Ssugnu cca, veni cchiù avanti, ‘n quarta fila”.

Certo gli ambiti film americani arrivavano con molto  ritardo in Italia, figurati a Reggio, ambiti perché prima della guerra e durante, in Italia era stato proibito il cinema americano. “Via col vento”, film del 1939,  l’abbiamo  visto a Reggio dopo diversi anni dalla sua uscita in America. E così anche “Fantasia”, capolavoro di Disney,  del ’40. Per quanto riguarda il cinema italiano invece quella fu l’epoca del grande Neorealismo Italiano che ci diede tanti bellissimi film. Per il grande pubblico però grande divertimento era piuttosto vedere i film con Stanlio e Ollio o con Gianni e Pinotto, o i film lacrimevoli italiani con Amedeo Nazzari o i divertenti film con Totò. Ma soprattutto erano preferiti i famosi musical americani. Quegli enormi palcoscenici con il pavimento tirato a lucido, su cui i ballerini di Ziegfeld Follies scivolavano splendidamente, avevano un fascino particolare. Sul palcoscenico del Teatro Comunale, fatto di assi di legno, i ballerini del varietà, battendo i piedi sollevavano invece sempre tanta polvere che ben si notava brulicare nel fascio di luce dei riflettori!

A fine anni ‘40 il Teatro Comunale, restaurato e gestito dai fratelli Montesano, finalmente cominciò a funzionare bene.  I reggini ebbero modo così di potere assistere spesso  a molti spettacoli teatrali. Anche al Moderno e al Siracusa  comunque davano delle commedie e non mancava   l’avanspettacolo. Ricordo di aver visto al Moderno una commedia con Rossano Brazzi e Alida Valli e dopo arrivarono anche Rosina Anselmi e Angelo Musco. Al Comunale però arrivava anche l’opera lirica, le operette e il varietà.  Grande eleganza delle signore reggine all’Opera per sentire Maria Caniglia, Tito Gobbi, Gino Bechi. Per il Varietà: Totò, Rascel, Macario, Dapporto, Wanda Osiris, Nino Taranto, Walter Chiari, vennero tutti al Teatro Comunale.  Quanto piaceva al pubblico la famosa passerella finale!  In un varietà di Totò ricordo in particolare una scena con otto grandi campane allineate sul palcoscenico,  colorate e  dondolanti su e giù, da cui uscivano a suon di musica le ballerine in bichini,  che poi via via passavano sulla passerella. Applausi a non finire.

Però, per vedere un film al cinema, o uno spettacolo a  teatro, bisognava pagare il biglietto e non tutti se lo potevano permettere.  Spendendo solo qualche lira invece grandi e piccoli si potevano  divertire, seduti su lunghe panche di legno, ad assistere ad un altro tipo di spettacolo: l’ Opera r’i pupi  nel teatrino di Don Natale, vicino  Piazza Carmine,  salita verso il Torrente Calopinace. Le storie di Carlo Magno e del paladino Orlando interpretate dai pupi  su un piccolo palco di legno, venivano raccontate e recitate appunto da Don Natale che  era insieme  narratore fuori campo, voce e animatore  dei pupi. Li reggeva dall’alto i pupi, con le cordicelle e sapientemente li faceva muovere e parlare.  È rimasta famosa a Reggio la frase che Don Natale fece rivolgere al nemico saraceno dall’eroe in campo: “Vigliacco, vieni fuori e combatti. Perché t’ammucci arretu  a la sipala? Forse che te la cachi?”! A ogni parola il pupo muoveva i piedi ora uno ora l’altro in modo sbilenco e si dondolava avanti e indietro e brandiva con fare orgoglioso la spada. Gli spettatori tutti, grandi e piccoli, seguivano la recita con attenzione e partecipazione spesso urlata, tipo avanspettacolo. All’apparizione del pupo-eroe buono il pubblico gridava e applaudiva,  a quella del cattivo  tutti fischiavano.  A volte Don Natale esagerava con certe  battute, per cui un giorno quando pronunciò questa frase: “E Orlando da solo ammazzò con la sua turlindana cinquanta nemici!”, fischi e urla della gente:

- Esageratu! Scala don Natale! Scala don Natale! –

- Ammazzò venti nemici! -  cercò di rimediare don Natale.

E grande urlo ancora:

- Scala don Natale! -  

- Ne ammazzò dieci!

- Scala don Natale!

- E ora basta,  non scalu cchiù nenti  e si cuntinuati a gridari vi jettu tutti fora! -

E fu silenzio.

Ancora oggi,  ad un amico che l’ha sparata grossa, a Reggio si dice –

- Scala don Natale! -               

                              

D’estate,  è ovvio,  grande spasso  era poter scendere in spiaggia,   benché non fosse un uso di tutti andare al mare ogni giorno. Soltanto la domenica varie famiglie scendevano al mare dalla campagna o con l’autobus o a piedi, anche se la spiaggia era lontana.  Portavano varie provviste se non addirittura un  pranzo vero e proprio e dopo il bagno  mangiavano seduti a terra sulla sabbia di qualche spiaggia libera. Anche la vecchia nonna  faceva il bagno. Però vestita! Nel senso che,  solo i piedi e le bianche braccia erano nude, infatti si calava in mare  e stava acquattata  vicino alla riva con la sua bella sottana nera lunga lunga che si gonfiava  a ombrello nell’acqua. Non avrebbe mai indossato un costume, era troppo vecchia per farlo, si sarebbe vergognata di mostrare altre parti nude, e forse non aveva neanche cinquant’anni. Del resto,  ai tempi, anche quelli dei giovani erano costumi “ascellari”!  Bisogna aspettare gli anni ’60 per vedere i primi bikini sulle spiagge reggine.

Per fare i bagni al mare, ci si recava nei vari stabilimenti a pagamento. Lo stabilimento di Calamizzi, una spiaggia di periferia, lontana dal centro,  al di là della stazione, raggiungibile attraversando a piedi un tunnel un po’ maleodorante su cui passava il treno,  era un po’ popolare, cioè non frequentato dalla “gente bene”. Però Calamizzi era  una spiaggia  sicuramente molto bella. Sabbia bianca  finissima,  intoccata in certi tratti,  su cui al mattino, quando ancora non c’era nessuno, vedevi che per il vento notturno si erano formate, specie sul bastione in alto, come delle piccole dune di sabbia con pennacchi d’erba che spuntavano qua e là, spesso brucata da pecore e capre guidate da un pastore. Tipico vedere, a mattino inoltrato, sulla sabbia umida solo le piccole impronte del gregge.

Gli altri stabilimenti più centrali, affacciandosi dalla Via Marina, si vedevano sistemati uno dopo l’altro, sul litorale al di là dei binari della ferrovia. Subito dopo la stazione: “Bagni Nettuno”, (ovvero “La Pescheria”), e dopo ancora, praticamente attaccato al precedente, “Bagni Musolino”, quindi, lo stabilimento “Bagni Amodeo” che, data la vicinanza al Molo

di Portosalvo, i reggini lo chiamavano naturalmente ‘u cippu; - Aundi  fai i bagni? - “’O ccippu!”.

Lo stabilimento “Bagni Nettuno” veniva chiamato anche “La Pescheria” perché, vicino, c’era un deposito di piscistoccu, come è chiamato a Reggio in dialetto lo stoccafisso il cui nome in italiano deriva dall’inglese stockfish, pesce stoccato, pesce conservato, per cui in effetti è più esatto il nome in dialetto reggino o messinese: piscistoccu, che non quello in italiano: stoccafisso che appare soltanto come una traduzione per assonanza! Le baracchette (allora non le chiamavamo cabine) della Pescheria, tutte di legno, erano dipinte con larghe strisce bianche e rosse in diagonale e la prima fila,  era piazzata, come palafitte, proprio sul mare. Dalla verandina che stava sul davanti, giù per  una scaletta, si scendeva infatti direttamente in acqua su un fondo di grossi sassi su cui a piedi scalzi si camminava con difficoltà. 

Nello stabilimento “Bagni Musolino”  le baracchette,  tutte sulla sabbia, prima e seconda fila, erano dipinte invece a strisce bianche e celesti. Ancora più in là,  in un  tratto di spiaggia libera  spesso i ragazzi,  seduti in cerchio sulla sabbia, giocavano allo “Scambio del gioco” che consisteva nello scambio veloce dall’uno all’altro di un sasso mentre tutti insieme cantavano:

Allo scambio del gioco

giochiamo a zico zà

zichì 

zicò

giocherem

chi va e chi viene

con lo zico zico zà!

 

  

Al verso “Con lo zico zico zà” si doveva velocemente far cambiare direzione al sasso senza sbagliare se no si pagava pegno.

Accanto all’Amodeo  d’estate entrava in funzione un cinema all’aperto. L’altro cinema all’aperto si trovava dopo il Lido, si chiamava infatti “Arena Lido”, dove  davano anche spettacoli teatrali.

Il Lido, l’ultimo stabilimento al di sotto della Via Marina, in una bella insenatura, era, diciamo, il più elegante e il più ambito. Il Lido ti dava un senso  di libertà,  specialmente la famosa Rotonda sul mare, uno dei pochi posti dove la sera ragazzi e ragazze potevano stare insieme, senza occhi indiscreti, a  guardare la luna che inargentava il cielo.  

 

Mariella Di Pasquale

 

 

 

         

 

 

 

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