“Tra il 9 e il 10 luglio gli alleati sono sbarcati in Sicilia -
disse papà - Ormai lo sbarco in Calabria ci sarà da un momento
all’altro, non c’è niente da fare, dobbiamo sfollare. D’altra parte
per questo da Pisa mi sono fatto trasferire a Reggio, proprio in
previsione dello sfollamento”.
Con la fantasia vedevo tante barche dirigersi verso la riva. Parole
apparentemente comprensibili come “sbarco”, che per me significava
semplicemente scendere dalla barca, a soli cinque anni non potevo
pensare che potessero significare qualcosa di più terribile di cui
bisognava aver paura, perciò continuai a immaginare di vedere molte
barche avvicinarsi al Molo di Portosalvo. Dall’alto, affacciandosi
alla ringhiera in ferro della Via Marina, si vedeva bene, oltre i
binari della ferrovia, il Molo a lastroni bianchi, prolungarsi in
mare dalla riva per una ventina di metri. Su un alto basamento vi
era stato innalzato un monumento a Vittorio Emanuele III e perciò il
luogo era chiamato ‘u Cippu. Spesso da quella banchina, a fine
maggio, ai primi tepori quasi estivi, i ragazzini magri magri, con
le scapole di fuori bene in vista sulle schiena ossuta, si tuffavano
“a palo” in mare per il primo bagno di stagione e appena
riemergevano dall’acqua ancora gelida dello Stretto, spingendosi in
alto sbuffando e spruzzando, gridavano forte: “Malanova Garibardi
chi friddu chi faci!”.
- “Dicono che gli alleati – aggiunse papà - sono arrivati in Sicilia
dall’Africa dopo aver vinto laggiù gli italo-tedeschi, ma io penso
che hanno combattuto soprattutto contro i tedeschi perché i militari
italiani, poveretti, mandati ovunque allo sbaraglio, non avevano né
armi ne equipaggiamento adeguati”.
Lungo il breve viale in salita, un po’ trascinata da mamma che mi
teneva per mano, camminavo riluttante verso la corriera che ci
avrebbe portato tutti quanti, anche la nonna, a San Basile, vicino
Motta San Giovanni. Voltata indietro guardavo gli anni felici di là
dei platani.
- “Meno male che esiste ancora qualche fondo della mia dote - disse
mamma - così possiamo sfollare in campagna. A San Basile i
bombardamenti non dovrebbero arrivare”. - “Fondo?Quattru
rozzulascecchi! E che c’è dubbio?” - naturalmente esclamò
ironico papà.
- “Si, si, fai sempre ironia tu, era meglio che mi sposavo con quel
bel giovane con gli occhi azzurrri, gli occhiali d’oro e che sapeva
suonare il pianoforte, tu pi’ miraculu soni a’ chitarra!” –
rispose polemica mamma.
A folate entrava caldo il vento di luglio attraverso i finestrini
della vecchia corriera che camminava a stento sulla costa ionica.
Superato il Campo d’aviazione, limitato sulla strada dagli alberi di
gaggie pieni di palline gialle profumate, fece sosta a Pèllaro dove
salì tanta gente sudata e carica di bagagli che non si sapeva più
dove metterli. Ad un bivio svoltò a sinistra per salire sulle
colline diretta al comune di Motta San Giovanni. Mi sarebbe piaciuto
proseguire un po’ per la stessa strada, infatti sapevo che più
avanti, dopo Lazzàro, si arrivava a Capo D’Armi e qui, sullo
strapiombo del Capo, rasentando a sinistra i massi sporgenti di una
scoscesa parete di roccia, dal muretto d’affaccio del belvedere si
può ammirare lo Jonio che spumeggia giù in basso sulla costa
frastagliata, così trasparente verso la riva ma intensamente azzurro
laggiù in fondo, schiarito appena da creste spumose all’orizzonte.
Da Motta proseguimmo a piedi per 3 chilometri fino a San Basile,
sempre in salita, su per un viottolo ripido, con i bagagli sugli
asini portati da due coloni di mamma.
- “Accomodatevi cavalera, quali onuri! E ‘sta bedda figghia cu è,
a cavaleredda?" – così affettuosamente ma con rispetto ci
accolse Filumena, affezionata colona, offrendoci ospitalità nella
sua modesta casa dalle finestre odorose per i vasi di basilico e
rosmarino sui davanzali.
- “Dumani ‘a vostra casa sarà pronta, pi’ stasira durmiti ccà e a
cavaleredda dormi cu nui pi’ stasira” - aggiunse Filumena.
Infatti dormii nel lettone in mezzo a Filumena e a suo marito quella
notte, al piano di sopra, dove portava una semplice scala di legno a
pioli appoggiata al buco quadrato del soffitto di tavole sostenuto
da grosse travi che, piene di tarli, rumoreggiarono tutta la notte.
- “Come hai dormito nel letto di Filumena? – mi chiese mamma
l’indomani – hai toccato cose molli?” - E papà e mamma scoppiarono a
ridere. Era una vecchia battuta, perché mamma una volta da piccola
aveva dormito nel lettone in mezzo al vecchio compare e alla vecchia
comare e si ricordava che ogni tanto aveva toccato “cose molli”….
Papà tornò subito a Reggio per lavorare ma ogni fine settimana
ritornava e raccontava come bombardavano, di morti e feriti, di
polveriere saltate in aria frantumando tutti i vetri delle case e
passanti che rotolavano a terra per lo spostamento d’aria. Io
correvo fuori con la voglia di giocare.
- “Si sono frantumate anche alcune vetrate della Cattedrale” –
racconta papà.
- “NO - grido - anche quella con San Giorgio e il drago verde con la
lingua di fuoco rossa rossa?”
La corriera non sempre arrivava fino a Motta perciò papà spesso era
costretto a raggiungere San Basile a piedi. Preferiva salire lungo
il Torrente Oliveto, il tragitto così era più breve. Del resto,
durante l’estate, solo un rivolo d’acqua scendeva e non sempre,
quindi nessun problema. Naturalmente però arrivava stanco, tutto
impolverato e con le scarpe sporche di fango.
Melina, la figlia di Filumena, aveva quindici anni e il primo giorno
mi abbracciò affettuosa come se mi conoscesse da tempo e io sentii
sul naso il calore del suo seno puntuto e un forte odore di stalla.
Melina sapeva saltellare scalza sulle grosse pietre, conficcate a
terra, di quel viottolo da secoli passaggio ripido invernale, fra
due pareti di roccia, per rivoli fangosi diretti al torrente e
d’estate scorciatoia per contadini e asini stracarichi con quelle
profonde ceste, pendenti ai fianchi, colme di legna o di fieno.
Riuscivano a scendere tranquilli gli asini sulle grosse pietre del
viottolo arrotondate e lisce, toc-toc e un toooc più lungo quando lo
zoccolo scivolava su una pietra più levigata dall’acqua. Ca’
coppula ‘n testa, tisi e caddusi, stavano gli uomini seduti in
groppa all’asino, l’aria serafica per quella sorta di fierezza
calabrese antica e le donne, con le gambe a penzoloni da un lato,
avevano un aspetto un po’ pudico così coperte, le gambe, dalle
ricche e lunghe sottane da cui fuoriuscivano i piedi sempre scalzi e
induriti sotto da uno spesso strato calloso grazie al quale non
avvertivano più da tempo le asperità del terreno.
Niente luce elettrica a San Basile. Nelle case lumi a petrolio dalla
fiammella tremolante e tanto buio fuori impenetrabile nel novilunio.
Quando però la luna splendeva alta fra le stelle allora, nel
chiarore d’argento, tutta la campagna respirava placida.
Su sedie di paglia, seduti nello spiazzo davanti casa, si stava a
chiacchierare nelle serate calde, con Filumena e i coloni Genovese e
Mallamace.
- “Cavalera, tanti beddi cafisi d’ogghiu facìmu ‘st’annu, vardati
quanti ‘livi supra l’arbiri!”. Filumena parlando abbassava
continuamente il mento annuendo soddisfatta.
Spesso, invece di chiacchierare, mamma e papà davano spettacolo ai
vari coloni. Leggevano cioè, ora l’uno ora l’altra, le commedie di
Martoglio in dialetto siciliano cercando di interpretare le parti
dei vari personaggi di “Civitote in pretura” o dell’”Aria del
continente”.
- “Fangu !” - gridava mamma nella parte di Cicca Stonchiti. -
“Cancelliere - correggeva papà nella parte del Pretore - scrivete
poltiglia!” - Fangu, ‘ccillenza, quali buttigghia?”ribatte
Cicca.
- “Voi foste presente al ferimento. Narrateci come accadde”.
- “E torna, parrinu e sciuscia! Non sapi sèntiri voscenza, non
sacciu autru, doppu mi scantai e mi nni fujii”.
Nei gesti e nel tono di voce i miei tentavano di imitare i famosi
attori Angelo Musco e Rosina Anselmi e tutti i coloni ridevano
divertiti.
- “E questo marruggio non lo vedi?” – esclamava papà nella
parte di Cola D’Uscio nell’”Aria del continente”.
- “Vecchiu stanchillatu e puddicinedda co’ giummu!” –
ribatteva mamma nella parte di Milla Milord.
- Ca’mi llurdasti da testa fin’e peri!” - concludeva don
Cola.
Sempre, in qualsiasi momento, molte frasi di una o dell’altra
commedia, risentite tante e tante volte, facevano parte ormai del
nostro lessico familiare. Bastava una frase o una sola parola
e c’era sempre qualcuno che rispondeva con una battuta martogliana.
Se ad esempio mamma, con un certo tono di voce, chiedeva: “E le
bambine perché non vengono?”, subito qualcuno rispondeva con la
stessa cadenza: “E le tre lire del liccasapone (coltello a
serramanico) perché non vengono, perché?”. Se veniva chiesto
il significato di una parola, risposta tipica era: “Voscenza non
sapi chi è ‘a truscia? ‘A truscia, voscenza, è dda cosa chi mettemu
unu pigghia d’in terra e s’ ’a ‘mpuni ‘ntesta”!
Appeso al muro, sopra la porta, il lume a petrolio, rischiarando con
luce tremula e fioca, attirava intorno zanzare e farfalline notturne
e anche i gechi che infidi, con circospezione estrema e atavica
prudenza, avanzavano lentamente, trovando presa sull’intonaco
rustico, fino a raggiungere lassù in alto la fonte di luce
fatiscente che avrebbe offerto loro, di lì a poco, il pasto
quotidiano. Orribile nel suo languido pallore, il geco più grosso
adesso si è bloccato lì, proprio vicino al lume. Sta immobile,
sembra senza vita. Molto sospettoso non si è mosso di un millimetro,
si bea di luce e resta fermo, paziente ad aspettare. Ora avanza
pianissimo verso la farfallina che allegra allegra si poggia con le
frementi alucce ora qua ora là vicino al fioco lume e sbatte contro
il vetro della lampada svolazzando inquieta. L’infido prosegue con
lentezza esasperante, estremamente cauto nei movimenti, piegandosi
le zampe strisciano in maniera impercettibile e la coda, pur sempre
aderente al muro, ondeggia piano piano. Si è fermato ancora,
aspetta, pregusta sadico il piacere del suo imminente cibo.
Strisciando attento avanza nuovamente. Si ferma. Gioiosa svolazza
distratta intorno alla lampada, la farfalletta ingenua, né si
accorge del pericolo che la sovrasta. Il malvagio è vicinissimo
adesso. Aspetta immobile e… Dio che balzo! L’ha presa quel brutto
schifoso e l’ha già mangiata.
Sentendo il rombo degli aerei che passavano in alto su di noi, per
paura delle bombe, corremmo nel rifugio, una grotta scavata nella
roccia. Tanti aerei quella notte passarono in alto con le lucine
balenanti, forse diretti a bombardare la linea ferroviaria di Reggio
o il porto di Messina.
Spesso il cielo veniva rischiarato anche da bagliori strani che
duravano poco e poi sparivano. - “Sono razzi” - disse il padre di
Melina e intanto guardava in alto preoccupato con quei grandi occhi
celesti, dolci e buoni, occhi nordici che alla luce dei razzi
raccontavano storie di dominazioni antiche.
Nessuna bomba, grazie a Dio, cadde mai sulle nostre colline e quindi
a San Basile si stava proprio bene. Era necessaria sempre la tessera
ma gli orti erano ricchi di frutta e verdura e il pane non mancava.
La campagna era bella e molte cose furono nuove per me, ad esempio
‘a gebbia, grande vasca di cemento, riserva d’acqua dei contadini.
Che bello, con Melina mi tuffavo come in piscina, solo che spesso
vedevo galleggiare qualche scarafaggio a gambe all’aria. Vicino
‘a gebbia c’era una piccola collina di sabbia dove un giorno
trovai tante conchiglie per lo più piatte e rugose, solo una
convessa a forma di spirale.
L’avvicinai subito all’orecchio e con infantile meraviglia mi sembrò
di sentire il rumore del mare.
– “Milioni e milioni di anni fa – ci spiegò il padre di Melina -
ccà non c’era terra ma sulu acqua, ‘nu mari grandi che poi si
ritirau e spuntaru collini e muntagni e rocce ardite comu
Pentidattilu cu’ cincu spadi chi perciunu u’ celu”.
Non lontano da casa mia, volentieri andavo a trovare due pastori,
marito e moglie, anziani coloni che preparavano la ricotta. Fuori
nell’aia, dentro un enorme pentolone nero poggiato sui mattoni,
sotto tizzoni di legna che fiammeggiavano, con un bastone tenuto a
quattro mani moglie e marito mescolavano insieme, mescolavano a
lungo quel siero biancastro che andava sempre più coagulandosi. Solo
dalla porta entrava la luce nella casupola buia senza finestre dove,
su un bancone, la donna poggiava le ciotole piene di ricotta e un
puzzo aspro di latte acido rendeva l’aria irrespirabile. Pronta per
essere venduta, tanta ricotta già sistemata con cura nei fisceddi,
contenitori di giunco chiusi da una fresca foglia di fico ben legata
intorno con steli di ginestra.
- Trasiti, trasiti cavaleredda - subito m’invitavano -
pigghiativi ‘nu fisceddu ‘i ricotta. Com’ero orgogliosa di
essere chiamata cavaleredda!
- Mangiatila, mangiatila ‘a ricotta figghicedda, mangiatila ora
che è cadda cadda e mbivìtivi puru nu pocu d’o vostru vinu e poi, si
buliti, jati, jati a vìdiri comu fannu ‘a vendemmia ‘nto vostru
palmentu, propriu ccà a du’ passi.
Che spettacolo! Senza sosta cinque o sei donne, le sottane rialzate
appuntate alla cintura, pigiavano e ripigiavano quell’uva nera come
danzando, mentre un liquido rosso scorreva veloce nei canali verso
le vasche di raccolta. Sporchi di sangue sembravano quei piedi
ruvidi e nervosi nel movimento antico di baccanti di campagna.
Tornando a casa, l’aria profumata di nepitella e origano, mi fermavo
spesso alla sorgente poco distante, lassù, in alto, fra le rocce
sovrastanti la vigna che tagliava la collina a strati con un
susseguirsi di armacere e gradoni. L’acqua sgorgava freschissima e
pulita. A me piaceva raccoglierla nel cavo delle mani unite per
bagnarmi il viso e il collo e le braccia ad occhi chiusi. Provavo
inconsciamente la strana sensazione di mettere su di me qualcosa di
molto intimo alla terra. Nel silenzio solo il fruscio lieve si
sentiva dello scorrere dell’acqua fra le pietre bianche e certi
richiami lontani di contadini da una collina all’altra, trascinate
intonazioni arabeggianti che ondeggiavano nell’aria. Un giorno,
d’improvviso, mi apparve accanto una zingara che, seria seria e
guardandomi fisso, esclamò: “Occhi di calamita, sciuri di zagara
profumata, fermati ti dicu, ‘a fortuna ti vogghiu diri sciatu meu”.
Gli zingari di notte dormivano sul greto dei torrenti, solo d’estate
naturalmente, perché d’inverno, specialmente dopo un temporale, a
fiumara (così è chiamato il torrente in Calabria, χumara,
con pronuncia della effe alla maniera dei coloni greci), scendeva
spesso precipitosa, raccontando la lunga storia sofferta della
terra. Non è mai la stessa l’acqua d’ ‘a χiumara, né gli
zingari erano sempre gli stessi sotto le arcate dei ponti dove,
nelle serate estive, si riunivano con carri e muli intorno al fuoco,
unica fonte di luce. Eppure sembravano sempre uguali, anche se di
lingua diversa, con una vita fatta di anni senza stagioni. Quando a
fine settembre partivano, seguiti dai cani, sotto i carri appesa, la
lampada oscillava come un pendolo, quasi a segnare il tempo, ma gli
zingari non seguono il tempo: vivono querelando, giorno dopo giorno,
con l’insistenza avida di chi pensa di possederlo il tempo.
- “L’acqua d’ ‘a χumara scindi d’ ‘a muntagna…” - sentenziò
ancora la zingara dall’accento slavo-calabro, lo sguardo cattivo e
minaccioso come le sue palette di ferro nero che cercava di vendere
per guadagnare qualcosa. In effetti riusciva a venderne tante perché
alle donne servivano per raccogliere la cenere dei camini e dei
fornelli delle cucine a carbone. In braccio teneva un bambino
attaccato al seno, un seno molle, cadente, s’intravedeva sotto la
veste a fiori di tutti i colori, un seno che continuava a generare
povertà e maledizioni. - “Però ‘a χumara non ndavi surgiva” -
concluse brusca e batté forte la paletta contro un grosso sasso con
gran rumore di ferraglia.
Mariella Di Pasquale
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