Certamente  si ricominciava a vivere a Reggio,  ma la ripresa era davvero molto lenta. Molte di quelle che oggi sono normali comodità casalinghe  non esistevano.

Quando, dopo la guerra, cominciarono ad arrivare i film americani si rimaneva sbalorditi nel vedere sullo schermo quegli eleganti appartamenti con grandi saloni, bianchi divani e poltrone, morbida moquette sul pavimento, luminose vetrate sul verde dei giardini e nelle cucine un bel frigorifero che da noi forse solo pochissimi avevano.  E le luci soffuse di sornioni abat-jours che l’attore accendeva tirando una cordicella? E le porte? Le porte negli appartamenti americani avevano quasi sempre (e hanno), un pomello dorato o di legno situato in una posizione più in basso di quella corrispondente delle nostre maniglie. Noi dobbiamo alzare un po’ il braccio per afferrare con la mano la maniglia di una porta, gli americani no, allungano semplicemente e comodamente la mano  per girare il pomello!

Le case a Reggio generalmente si rassomigliavano più o meno tutte, per lo più con un solo bagno e nessun elettrodomestico.  Non tutti avevano il telefono che pure era una scoperta ormai datata, e neppure il frigorifero: si usavano ancora le vecchie ghiacciaie rifornite di ghiaccio ogni giorno dall’uomo che portava in giro, tirato da un vecchio mulo dall’aspetto stanco, un carretto pieno di grossi squadrati pezzi di ghiaccio, prelevati alla Fabbrica del ghiaccio sulla via del Macello, gocciolanti per tutta la strada benché coperti con tela di sacco affinché non si scongelassero velocemente. Grattando quel ghiaccio con una apposita specie di grattugia (che somigliava piuttosto a una raspa)  potevi anche preparare una granita casalinga.

Non esistevano ascensori ritenuti poco necessari perché  i palazzi reggini  non superavano i tre piani per  noti problemi sismici.  Non esistevano termosifoni. ritenuti anch’essi inutili dato il  mite clima reggino. È vero, clima mite. Ma anche in Calabria ci sono i giorni della merla! Per cui d’inverno, all’occorrenza, ci si riscaldava col braciere di rame sistemato nella  ruota di legno  intorno alla quale, nei momenti di riposo, si sedevano, sferruzzando, soprattutto le donne, con i piedi poggiati sul largo ripiano della ruota  così il calore del fuoco, salendo confortante sutta u scossu jasatu lungo le gambe fino alle cosce, arrossava la pelle dei polpacci  a piccole chiazze che tutti chiamavano ‘ì satizzi! Il calore del braciere però mi faceva prudere di più i geloni che ogni inverno puntualmente arrivavano sulle dita delle mie  mani. “Strofìnaci  mezzo limone, così il prurito ti passa - mi consigliava mamma -  oppure versa acqua calda nel lavamano, chiddu ‘nto lavabu,  e metti le mani a bagno”.  U lavabu era un mobile strano alto circa 80 cm. e lungo forse un metro. Sopra  un ripiano in marmo grigio  si alzava un grande specchio in cornice di legno.  Due lavamani bianchi erano incassati nel marmo fra cui troneggiava una grossa brocca bianca con fiorellini azzurri.  Era un mobile di nonna Saveria e serviva per fare lavare le mani agli ospiti.  Per riscaldare il letto si usavano  scaldini di metallo a forma di secchiello con dentro carboni accesi che, con inconsapevole conoscenza della legge di gravità, le donne cercavano di ravvivare facendo ondeggiare verso destra e poi verso sinistra tanto velocemente il secchiello così da non far cadere le braci  ma renderle semplicemente più ardenti smuovendo l’aria! Il fon? Ovvero l’asciugacapelli in buon italiano? Oggetto sconosciuto. D’estate i capelli si asciugavano al sole, d’inverno si riscaldava un asciugamano tenendolo alto sul fuoco del braciere o sui fornelli della cucina a carbone, e poi lo si strofinava caldo sui capelli per farli asciugare più alla svelta.  La cucina a carbone! Che bella e quanto scomoda! Sull’apertura di ogni fornello erano posti  dei cerchi di ferro concentrici larghi circa tre cm. con circonferenze di misure diverse, dal più grande al più piccolo. Se la pentola era grande  un cerchio o più cerchi  (a cominciare da quello all’interno)  venivano tolti, a seconda della misura della pentola. Vicino ai fornelli caldi spesso, incassato nel piano d’appoggio, c’era un recipiente di rame generalmente pieno d’acqua  che mantenendosi calda poteva servire all’occorrenza.  Soffiavano con un largo ventaglio di palma le donne per ravvivare il fuoco, giù in basso, in direzione dello sportelletto  che chiudeva lo spazio dove cadeva la cenere dal fornello calda e ancora arrossata. Su quei fornelli tante cose buone venivano cucinate a lentu focu in scodelle di terracotta. Il forno? Niente forno, però  le casalinghe si arrangiavano così: la teglia con la torta di mele o le “lasagne” veniva posta sul fornello (giusto calore del fuoco per i dolci e le lasagne,  un po’ più forte per gli arrosti) e sul  largo coperchio che chiudeva la teglia si poggiavano  braci ardenti in quantità misurata  a seconda di ciò che si doveva cuocere. Insomma  “focu sutta e focu supraera il forno.

Lavastoviglie in cucina?  Inesistente. In un grande recipiente di terra cotta smaltata all’interno, largo sopra e più stretto sotto, ‘u bavunu, si lavavano piatti,  pentole e posate  ‘ntall’  acqua cadda d’a pasta sapunata, l’acqua cioè  in cui  era stata cotta la pasta,  pare che l’amido del frumento contribuisse a sgrassare meglio le stoviglie. Naturalmente niente detersivi che oggi facilitano tanto il lavoro, ma solo pomice e sapone spesso fatto in casa con trattamento a caldo di olio e soda. Lavare i piatti  era insomma un lavoro davvero molto increscioso. Le pentole d’alluminio sui fornelli a carbone diventavano maledettamente nere ma, rese lucide strofinandole con la pomice, venivano poi appese, in bella mostra, a una parete della cucina. Anche le posate di vile metallo si scurivano con l’uso, bisognava strofinarle a una a una per renderle lucide. Una volta lavate, ai bambini  il noioso compito di asciugarle c‘a mappina, cioè uno strofinaccio pulito. A proposito della cosiddetta  mappina,  voglio raccontare  un simpatico aneddoto: un’anziana signora reggina, trascorreva molte ore seduta in poltrona davanti alla televisione, così spesso si addormentava piegando la testa in avanti. Consapevole di questo, ed essendo ancora attenta, in maniera femminile, a cercare di non fare aumentare le  rughe del collo, quando stava per addormentarsi, per  precauzione metteva  sotto il mento una mappina piegata in quattro. Un giorno il suo nipotino di 10 anni, accanto a lei,  faceva le parole crociate  e gli capitò questa definizione: «La mettono al collo le donne, sette lettere». Avrebbe dovuto scrivere  «collana», ma lui tutto felice gridò: “mappina”!

U bavunu serviva anche per altre cose, ad esempio per mettere sotto sale, una sull’altra, tante fette di melanzane da conservare per l’inverno, procedimento necessario per togliere l’amaro; dopo,  immerse per 2-3 minuti in una pentola  piena di aceto che bolliva sul fuoco, venivano sterilizzate e s’insaporivano. Sopra un tavolo coperto da una tovaglia da tavola pulita, le melanzane dopo venivano stese ad asciugare per almeno 24 ore. In barattoli di vetro sterilizzati in acqua bollente e asciugati, venivano quindi sistemate a strati coperte d’olio, cunzati con aglio, basilico e grani di pepe. Chiusi ermeticamente, i barattoli dovevano restare per almeno due mesi in luogo oscuro e fresco. Tanti cibi si cercava di conservare, forma di risparmio da tempo immemorabile, assolutamente necessaria  in quanto, non esistendo frigoriferi, bisognava in qualche modo conservare varie provviste per l’inverno. L’olio e il sale erano importantissimi per la conservazione dei cibi.  D’estate perciò si lavorava per l’inverno: melanzane sott’olio;  pomodori seccati al sole e poi conservati sott’olio in barattoli di vetro sterilizzati con aglio basilico e qualche cappero;  olive in salamoia; ‘livi schiacciati; tonno sott’olio; peperoni carote cipolla sedano cetrioli finocchi sott’aceto; carciofini sott’olio; funghi sott’olio; ecc. ecc. Con i pomodori freschi si faceva inoltre la conserva, grande fatica per le donne. Nelle campagne le contadine accendevano fuori, in uno spiazzo sterrato, un bel fuoco a legna fra i mattoni  su cui poggiavano un grande pentolone dove mettevano a bollire i pomodori che dopo venivano passati al setaccio. Quella crema di pomodoro, messa in pentola sul fuoco affinché diventasse più densa, veniva  poi conservata (conserva) in barattoli di vetro con foglie di basilico. Solo qualche anno dopo fu possibile comprare, nei negozi di alimentari, pomodori pelati o conserva in lattine di origine industriale. Vari grappoli di pomodorini piccoli, legati con lo spago, venivano appesi a un gancio in alto nel ripostiglio dove si mantenevano per l’inverno insieme ai grappoli di sorbe che piano piano maturavano. Spesso, di nascosto,  andavo a rubare qualche sorba già matura, per cui papà  trovava  sempre solo quelle ancora acerbe e si arrabbiava,  “pirchì ‘a sorba acerba allippa ‘a lingua” diceva.

Dunque niente cucine a gas con forno incorporato,  niente scaldabagno e naturalmente niente acqua calda dal rubinetto. Per fare il bagno si usavano delle grosse bagnarole dove si versava l’acqua scaldata sul  fuoco. Chi aveva la fortuna  di avere una vasca da bagno la riempiva, pentola dopo pentola, con l’acqua calda sempre scaldata sul fuoco. La doccia ancora non  usava e naturalmente non c’era proprio nei bagni. Diciamo che nelle case povere l’igiene lasciava molto a desiderare. Non era raro notare infatti che la compagna di scuola,  seduta nel banco davanti al tuo, aveva il collo un po’ scuro, o le orecchie sporche. A San Basile addirittura  i bambini  si grattavano sempre la testa. I pidocchi  c’erano e le nonne  spesso erano addette a spidocchiare i nipoti,  anzitutto pettinando i capelli co’ pettini strittu, la testa del bambino tenuta abbassata supra u scossu o più spesso sul lavandino così, tirati dal pettine,  venivano giù  pidocchi e uova (di pidocchi) che  si vedevano bene così neri sul bianco della ceramica. Dopo continuavano a cercare ancora  fra i capelli, così se si trovava  ancora qualche altro pidocchio  subito le nonne lo schiacciavano fra le unghie dei pollici! Spettacolo orrendo! A proposito di pidocchi un giorno papà mi raccontò una storia che mi fece morire dal ridere: una coppia, marito e moglie, piuttosto anziani, litigavano sempre e lei bassa bassa e magra magra, tutta ossa, diceva continuamente al marito per offenderlo:

- Pidocchiusu, pidocchiusu, pidocchiusu –

Lui si arrabbiava, un po’ sopportava ma poi rimuginava e si esasperava.

- Pidocchiusu, pidocchiusu, pidocchiusu -.

Un giorno il marito si irritò tanto che perse il controllo. Con rabbia la sollevò e la gettò nel pozzo.

- Atterru, atterru - gridava la donna e intanto annaspava e beveva acqua e tossiva, però da laggiù continuava a gridare:

- Svergugnatu, assassinu, e sempri pidocchiusu, pidocchiusu, pidocchiusu! Affondava, ricompariva e imperterrita continuava a gridare:

- Pidocchiusu, pidocchiusu, pidocchiusu

Finché la sua testa scomparve sott’acqua e non potendo più gridare allora alzò le braccia e spuntarono  fuori dall’acqua le sue mani a fare il gesto tradizionale per schiacciare i pidocchi con le unghie dei pollici. Stava affogando ma sembrava che continuasse a gridare:  

- Pidocchiusu, pidocchiusu, pidocchiusu

Ad un tratto le sue mani scomparvero e fu silenzio. 

Le pulizie di casa creavano molta fatica alle donne.  Per lavare i pavimenti si usava ‘a mazza, il legno per trascinare gli stracci bagnati sul  pavimento, (oggi si chiama spazzolone). Specialmente in campagna era necessario scopare e lavare i pavimenti ogni giorno perché c’era tanta polvere  (la pulizia delle strade lasciava ancora a desiderare). I letti bisognava rifarli completamente tutti i giorni  levando lenzuola e coperte per sbatterle fuori dalla finestra o dal balcone; i materassi, dopo essere stati battuti con il battipanni, era necessario rialzarli per vedere se nelle reti si fossero nascoste delle cimici brutte, nere e maleodoranti quando riuscivi a schiacciarle. Bisognava cercare di pulire tutto bene per non fare arrivare altri insetti come le pulci e soprattutto non dovevano arrivare le cufe schifosissime. La sera, quando si rientrava  in casa al buio, bisognava stare attenti, infatti appena si accendeva la luce vedevi le cufe correre di qua e di là sul pavimento con le ali un po’ aperte. Erano degli scarafaggi orribili, se ne schiacciavi una usciva fuori come un putrido  pus giallastro.

 

Mariella Di Pasquale

 

 

 

 

 

 

 

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