Secondo
tradizione, quel due novembre del ‘43, ci recammo tutti al
cimitero. Alla vista dei seminaristi che camminavano in
fretta sul marciapiede tutti in fila incolonnati a due a
due, le lunghe vesti nere svolazzanti e un mormorio continuo
di voci maschili in tono basso “Chiovi, chiovi -
disse un passante senza incertezza - sempri pioggia
portanu i parrineddi” - e intanto guardava il cielo in
cerca di nuvole.
Sotto quel rotondo cappello a tesa larga, i visi sbarbatelli
dei futuri ministri di Dio s’intravedevano appena, gli occhi
timidi rivolti in basso a guardare l’orlo della lunga veste
nera ondeggiante al passo. Andavano al cimitero come noi i
parrineddi, su per la salita di via Spagnolio superato
l’incrocio con via del Crocifisso ed era lunga la strada da
fare a piedi, però si camminava tutti volentieri,
lentamente, come bella passeggiata per andare a visitare i
morti.
Tornato dopo lo sfollamento, eccolo, era arrivato pure il
giovane sciancatu, sempre con la mano tesa a chiedere
elemosine e la lingua che pendeva tutta fuori dalla bocca.
Già all’alba si era piazzato fuori dal Cimitero, seduto per
terra, a sinistra del grande portico d’ingresso, immobile
come l’anno prima e l’anno prima ancora, nella stessa
posizione, accovacciato come non si fosse mosso mai. Pareva
un povero cane striminzito con la lingua penzoloni. Non
faceva parte del suo corpo quella lingua, pendeva lì
sbavando per i fatti suoi. Dal lato destro del portico, come
ogni anno, lo guardava impietoso il vecchio con la barba
bianca, senza gambe, seduto dentro una larga cesta rotonda a
bordi bassi piena di luridi stracci per cuscino. Forse
osservando quel povero scempio di esistenza, si confortava
per le sue disgrazie. Abitava vicino al carcere il vecchio
mutilato e solo a fine giornata se ne tornava a casa
affrontando un percorso di circa 2 km per arrivare fino al
vicoletto dove stava la sua stamberga. Facendo leva per
terra su due tamponi di legno di cui teneva stretto il
pomello con le mani, quei tamponi curvi ad arco con la carta
assorbente sotto che agli scolaretti servivano per asciugare
sul quaderno le parole scritte con l’inchiostro, riusciva
lentamente ad avanzare trascinando contemporaneamente col
sedere la cesta nella quale stava seduto: fra quegli stracci
sporchi s’intravedevano, all’altezza delle cosce, i grossi
monconi dei suoi poveri arti perduti chissà come, qualcuno
diceva forse per cancrena, durante la guerra ‘15-’18. Ogni
tanto si fermava, posava i tamponi, toglieva la coppola
dalla testa calva e pustolosa e, per riceverci dentro le
monetine, la tendeva alla gente con un lamento sempre
uguale: - "P’amuri r’a Maronna…". In quel vicoletto
l'avevo visto una volta portarsi avanti trascinandosi nella
cesta, riuscì anche a salire sul marciapiede sempre con la
cesta e poi entrò in un cortiletto.
- Bonasira cumpari, comu siti? - lo salutò il
cocchiere suo vicino il quale, appena rientrato anche lui,
stava sistemando sia la carrozza che il cavallo sempre lì
nel cortiletto che naturalmente puzzava tanto di urina di
cavallo.
Lungo la strada verso il cimitero, attraversando la piazza
con la chiesa di S. Paolo, ci fermammo, come sempre, ad
ammirare, da quel bel terrazzo panoramico affacciato sul
mare, la città giù in basso che sembrava distesa
gioiosamente con i piedi in acqua: a destra il porto e la
baia di Pentimele, a sinistra il Torrente Calopinace,
l’infida χiumara tra il verde degli aranci e, di
fronte, laggiù, oltre lo Jonio, l’Etna bianco di neve sulla
cima, maestoso e solo, col bel pennacchio di nuvole in testa
per cappello.
Il due novembre per me non era un giorno triste. Mi piaceva
raccogliere crisantemi e zinnie nel nostro giardino per poi
sistemarli nei vasi da poggiare accanto alle tombe. Davanti
alla tomba di Damaso così disse mamma quel giorno:
- Ciao Damasu, fratuzzu miu, ti portu i saluti ‘i anchi
‘i cimedda - E Damaso, che ai tempi già non ci stava più
con la testa, sembrò rispondere: - Ma chi cavulu dici,
Catuzza, tu vaneggi, non è possibile, quel figlio di…lassamu
perdiri, havi assai chi chiddu muriu, è sutta terra mortu
stecchitu!
Da sola mamma, sorridendo, parlava per tutti e due secondo
un vecchio dialogo scherzoso che, vivo Damaso, si era
ripetuto tante volte. - E dimmi Damasu - continuò - anchi
‘i cimedda ‘u ncuntrasti ‘n celu o no? Requiem aeternam,
pace all’anima sua e tua.
Quando era vivo lo vedevo spesso sul Corso Anchi ‘i
cimedda, un tipo siccu siccu e longu longu, con certe gambe
magre magre comu ‘na canna, comu ‘a cimedda.
Riempìti d’acqua i vasi alla fontanella laggiù vicino al
Sacrario dei morti in guerra, vi sistemavo con cura i fiori
e poi li posavo davanti alle lapidi. Con gli altri dopo
recitavo preghiere per i morti: Requie materna , dona
sdomine… requie e schiatta in pace… Così sentivo e così
recitavo. Papà mi sgridava: - Ma chi cavolu dici? Non sulu
‘sti poveretti muriru, ma tu ‘i voi puru fari schiattari! -
E intanto si mangiavano castagne arrostite ancora tiepide.
Anche altre preghiere e canti in latino storpiavo, forse
perché inconsciamente cercavo di trovare in quelle parole
per me strane, qualche attinenza o somiglianza con
l’italiano. Nel sentire in chiesa il Tantum Ergo, ad
esempio, quando si cantava “Compar sit laudatio…”, io
invece, legando o slegando le parole, cantavo: - Cumparsita
la dà ziò - però mi chiedevo che cosa c’entrasse mai, nel
canto sacro, il tango la Cumparsita che ben conoscevo perché
mamma lo suonava spesso al pianoforte.
Mamma suonava sempre volentieri il pianoforte: canzoni
napoletane o arie famose di opere liriche, soprattutto della
Traviata, ma anche arie di operette o belle romanze antiche
come “Mattinata”.
- L’ha scritta Leoncavallo” – subito diceva papà alle prime
note.
- “Ma non è di Tosti?”, replicava regolarmente mamma. E
intanto mia sorella cantava con la sua voce da soprano:
L’aurora di bianco vestita
già l’uscio dischiude al gran sol…
Allora io subito la disturbavo cantando a voce alta:
Signorina Maccabei,
per favore dica lei
dove sono i Pirenei…
e mamma m’interrompeva seccata: “Che canzone scema, senti
invece quant’è bella la romanza “Rimpianto” di Toselli, così
dolce e triste:
Come un sogno d’or
scolpito nel cuore
il ricordo ancor
di quell’amor
che non esiste più.
Me la cantava sempre quel bel giovane alto con gli occhiali
d’oro, gli occhi azzurri e che…. “ - “
- Sapeva anche suonare il pianoforte!, gridavamo
tutti in coro ridendo.
Da grande, appena conoscevo un ragazzo, mamma per prima cosa
mi chiedeva: - Sa suonare il pianoforte?.
Quando suonava canzoni tristi come “Balocchi e profumi”,
“Pupo biondo”, “Una rondine al nido” mi veniva da piangere,
ma mi divertivano quelle allegre, un po’ grottesche e
surreali come “Zichi-paki-zichi-pu”, o patriottiche come “Il
Piave mormorava…” ovvero “La leggenda del Piave” e “Tripoli
bel sol d’amor”
Davanti alle lapidi dei suoi fratelli morti di tisi
giovanissimi mamma recitava preghiere come lamentandosi: -
Requiem aeternam… Poveru Peppinu, poviru fratuzzu miu e
povira Armida, infelice ‘sta soricedda mia, infelice.
Chissà perché le donne, soprattutto quelle non tanto
giovani, al cimitero, ma anche in chiesa durante la messa o
dopo la confessione, pregavano come mamma sempre con lamenti
e sospiri. Forse perché apparendo infelici, speravano di
impietosire di più i santi a cui si rivolgevano affinché
meglio accogliessero le loro preghiere e perdonassero i loro
peccati.
Portammo tanti mazzi di fiori anche per la vecchia cappella
dove riposavano i miei nonni materni.
“Vedi? - osservò papà, regolarmente come sempre, rivolto a
mamma - nessun fiore in questa cappella, i tuoi parenti se
ne fregano, non vengono mai al cimitero, mancu u due
novembri, lasciando tutto l’anno ‘sta cappella tutta
sporca e senza fiori. Non hanno rispetto per i morti,
neanche le tue cugine Enrichetta ed Esterina dei Ruffo di
Calabria. Ah, dimenticavo - continuò a ironizzare –
figuriamoci, i Ruffo non si possono abbassare a fare queste
cose”.
Rivolto a me poi aggiunse: “Tu forse non lo sai, ma la
famiglia di tua madre, parte paterna, le cui origini
risalgono a Carlo D’Angiò, ebbe in donò dagli angioini dei
feudi in Puglia e perciò tutti i discendenti si chiamarono
Pugliatti. Infatti per tutto il tempo della lotta tra
Angioini e Aragonesi, che si protrasse fino al 1372, Reggio
rimase sempre fedele agli Angioini dai quali ottenne
privilegi ed esenzioni fiscali. Devi sapere inoltre che
anche tua nonna Saveria aveva origini nobili in quanto era
una Bosurgi-Plutino. Antonino e Agostino Plutino, e anche i
Bosurgi, al tempo dei Borboni, furono di tendenze liberali
e, aderendo alla Carboneria, lottarono per l’unità d’Italia.
Agostino Plutino fu anche nominato comandante della Guardia
Nazionale. Dopo la cospirazione esplosa nel 1847, presto
cominciò la reazione e la caccia ai fuggiaschi. I fratelli
Antonino e Agostino Plutino riuscirono a salpare per Malta e
quindi condannati in contumacia. In seguito, nel 1848, i
rivoluzionari furono tutti liberati e anche riabilitati ed
esaltati”.
Come l’anno prima e l’anno prima ancora, guardando una bella
lapide in marmo con la foto di una donna dal profilo
volitivo e aristocratico che sorrideva appena, da
sessant’anni sorrideva sempre appena. Subito papà cominciò a
leggere l’epigrafe a voce alta:
- “Qui giace Caterina dei marchesi di Francia… Guarda guarda
- commentò con sarcasmo rivolgendosi a me - vedi che parenti
ha tua mamma? Te l’ho detto, lei ha il sangue blu come
quando c’eri tu che fa rima!”.
Della zia marchesa di Francia in barca sul lago con un
cappello bianco a tesa larga da cui scendeva un velo bianco
ai lati del viso, c’era una foto anche in casa, bene in
vista sul canterano e papà ogni tanto sfotticchiava in
versi:
come quando c’eri tu
chi sta tisa supra ‘a barca
tutta bedda misa a cumarca
e sta ddà
in-sul-ca e poi a capo fa
nterano perché
la donzelletta vien dalla campagna
in-sul-ca
e poi a capo
lar del sole!!!
Guardavo spesso la foto della marchesa, soprattutto il bel
vestito lungo di foggia antica e gli anelli con brillanti.
Era una foto su lastra d’argento, come si faceva allora col
procedimento del dagherrotipo. Mamma ci teneva a tenere
quella foto sul canterano bene in vista perché la marchesa
era sua zia, moglie di Francesco, fratello di mio nonno.
L’altro fratello Rocco invece s’innamorò di una nobil donna,
una contessa, dama di corte della Regina Margherita. Essendo
lo zio Rocco giudice della Corte dei Conti, era stato
chiamato a corte per seguire le pratiche di successione dopo
la morte di Re Umberto. “La contessa e mio zio si amavano
tanto, ma lei era sposata - mi spiegò mamma - e quando
rimase vedova destò scandalo la nascita di una bambina
perché la contessa e lo zio non erano ancora sposati, per
questo quando nacque Irene io l’ho sempre chiamata ‘a
cugina spuria”.
Ormai Natale era vicino, ma già da metà ottobre,
secondo tradizione familiare, papà aveva cominciato a fare
il presepio, anzi si può dire che ci lavorava tutto l’anno.
Lui stesso infatti costruiva le piccole casette dei pastori
adoperando il seghetto. Inventava anche vari sistemi
d’illuminazione e cercava sempre qua e là materiali diversi
per rivestire le parti montuose. Intorno al paesino di
Betlemme c’erano sempre monti e colline, rocce di sughero
ricoperte di muschio. Nel mezzo della vallata, laggiù verso
la pianura, scorreva una cascatella di stagnola che,
divenuta placido fiume, col suo bel ponticello di legno
rosso, finiva per sfociare in un laghetto di specchio con al
centro cinque ochette galleggianti e sulla riva la lavandaia
con il viso rugoso che in ginocchio strofinava i panni su un
grosso masso, mentre le pecorelle bevevano curve col muso
nell’acqua. In altre piccole valli il paesino si dilatava,
alla maniera dei presepi napoletani, con stradine e slarghi
e salite e discese e grotte di sughero con dentro laboriosi
artigiani al lavoro: u scarparu, u falignami e u stagnaru
e due donne che filavano la lana. Tante casette erano sparse
ovunque con la lucina sotto, così dalle finestrelle,
rivestite di carta di caramelle trasparente di vari colori,
veniva fuori una bella luce colorata. In alto, su una altura
spiccava il mio pastore preferito, u meravigghiatu da
grutta, tipico personaggio sempre presente in ogni
presepio, il quale da lontano, schermandosi gli occhi con la
mano, guarda meravigghiatu, stupito, la cometa che lo
abbaglia di luce divina. Fra sentieri di ghiaia e prati di
muschio vero, gruppi di pastori in cammino verso la grotta
santa carichi di doni, tranne il guardiano di pecore che
dormiva beato sotto un albero.
Lassù, da dietro la collina più alta, spuntavano sui
cammelli i Re Magi con i mantelli lunghi e le corone in
testa, in cammino uno dietro l’altro seguendo la cometa ben
sistemata sopra la grotta protetta a destra e a sinistra da
due angeli dalle grandi ali. Ogni giorno papà spostava i
Magi un po’ in avanti, finché all’Epifania sparivano i Magi
sui cammelli e spuntavano come per incanto i Re Magi
appiedati, uno in ginocchio e gli altri due in piedi davanti
alla grotta con la Sacra Famiglia, offrendo in dono: oro,
incenso e mirra.
- “Papà – chiesi un giorno – perché Gesù è nato in una
grotta?”.
E lui, come al solito scherzando, rispose: - “Veramente
Giuseppe, il papà di Gesù, voleva andare in albergo, ma
l’albergatore, come dice la famosa poesia, lo cacciò via
dicendo con sussiego:
Non amo la miscela di alta e bassa gente,
il campanile scocca le sette lentamente.
Mariella Di Pasquale
|