La gioia della pace ritornata fu come se avesse risvegliato in tutti il bisogno d’amare. Molti matrimoni si celebrarono e tanti piccoli reggini l’anno dopo vennero al mondo.

In quel tempo le donne  generalmente partorivano in casa con l’aiuto della levatrice.

Quando doveva partorire qualcuna delle mie sorelle, essendo ancora piccola, mi mandavano fuori sulle scale e io sentivo la sorella di turno che gridava, gridava: - Ahi, ahi, staiu murendu, aiutatemi, misericordia. Ma quantu ci voli ancora? -. Attraverso la porta di casa lasciata aperta vedevo un via vai di donne che portavano nella stanza da letto pentole di acqua bollente e sentivo la  voce della levatrice che incitava la puerpera: - Dai, dai, spingi, spingi, alluccà, sta niscendu!-.  Finalmente, ad un tratto,  si  sentiva il pianto del neonato e  tutti a gridare:

- Masculu, masculu è - Oppure: - Fimmina fimmina è.

Allora mi facevano rientrare in casa e,  alla vista di quel batuffolo rosa,  mi sentivo già tanto zia. Se poi  mi  permettevano di tenerlo un po’ in braccio gli cantavo subito la ninna nanna: 

Oh, oh, oh, idda è bedda   e l’autri, n o,  ma si idda nun voli durmiri naticateddi ‘n culu havi aviri.

Sant’Antoniu mandatici u sonnu c’a figghia mia ‘ndavi bisognu. Sant’Antoniu ‘nci lu mandau, a figghia mia
a’addurmintau. Ina ina ina quant’è bedda Caterina. Ina ina ina quant’è bedda
Caterina.  

Ricordo con orrore  una vaschetta di zinco a terra, vicino al letto della partoriente, piena di panni sporchi di sangue.

- Ma perché? -  ho chiesto con occhi sbarrati.

- Via, via, purtatili a lavari ‘sti panni - gridò subito mamma.

Si lavavano  a mano i panni.  In città, quelli che potevano pagarle si servivano delle lavandaie che venivano fino a casa a fare il bucato. Dopo aver insaponato e strofinato i panni  li mettevano a bollire sul fuoco  in  un pentolone  pieno d’acqua con lisciva, un miscuglio di cenere di legna che serviva a disinfettare e a sbiancare meglio la biancheria. 

Le contadine invece, nelle campagne, non arrivando l’acqua nelle case, o si recavano ai lavatoi o in mancanza erano costrette ad arrivare  in riva ‘a χiumara dove, dopo aver insaponato e strofinato  i panni  su un  largo e piatto masso quasi bianco,  “el brelin” direbbe un milanese, li facevano riposare stesi sull’erba al sole affinché sbiancassero ancora meglio  col calore solare.  Infine  li risciacquavano nell’acqua del torrente.

 Anche a Reggio  molte donne di via Sbarre erano costrette a lavare  i panni  ‘nto  Calopinaci, ‘a  bedda χumara, che dalle ultimi propaggini dell’Aspromonte  scendeva  gonfia d’acqua d’inverno e, rasentando rumorosamente le arcate dell’antico ponte San Pietro,  gorgogliava  spingendo ansante rami d’albero e carcasse e massi enormi e pietre e ciottoli bianchi o grigi rotolanti insieme a riempire la valle come una spessa coltre stesa con rabbia sull’eterno riposo di generazioni antiche. Il Calopinace non aveva paura degli zingari  sistemati d’estate  sotto il Ponte San Pietro  che imponente  li sovrastava  e  li sopportava.  Kalos pinax,  bel quadro,  così lo avevano chiamato i coloni greci,  torrente vibrante di vita interna e misteriosa che variava col mutare di stagione;  ogni pietra una storia, ogni goccia una lotta nel tempo e tanta sofferenza nella sopportazione paziente degli zingari e degli uomini che nel giugno afoso infamavano  il suo greto. A centinaia arrivavano alla fiera del Santo nei pressi della chiesa di S. Pietro,  fantocci papariati con la cravatta nuova   su muli bardati a festa con pennacchi colorati e dietro di loro,  senza ritegno, asini e vacche e maiali da vendere al migliore offerente.   Alla sera saliva ancora sul ponte il tanfo delle bestie e le bianche pietre del greto mostravano tristi alla luna lo sterco delle mandrie.

- Biniditta l’acqua di marzu - diceva mamma - laverà ogni cosa e tornerà a ghìnchiri di petri janchi e rami d’arbiru, ‘a bedda χumara vindicata.

Perché  p’ ‘a festa‘i San Petru, ogni anno le scavatrici, avanti e indietro sul letto del Calopinace, svuotando il greto da tutto ciò che la forza dell’acqua aveva trascinato durante l’inverno, toglievano al torrente la sua maestosa veste invernale.  

A χumara  pulita, come impotente senza la sua corazza,  mostrava adesso,  nuda e inerme, la terra umida del suo letto, rassegnata a farsi lordare impunemente dalle bestie nell’attesa del gran finale a chiusura della festa: la danza nel buio del cammello di fuoco, u camiddu ‘i focu, un rito affascinante per centinaia di sguardi increduli e parecchio stralunati,  una favola da raccontare  a chi non c’era, nelle lunghe serate dell’inverno freddo  intorno al braciere. 

Accesa dentro, con il fuoco che avvampava nel corpo, fonte luminosa unica  sulla terra scura, quella massa cartacea a forma di cammello, ondeggiando dapprima a lento ritmo,  cominciava a danzare sul greto al suono esasperante del tamburo. Si contorceva, strideva, come volesse esorcizzare il demone che all’interno della pancia gonfia provocava quei movimenti inopinati. Sembrava  un satana ruggente con due gobbe strane.

Nella notte  sciroccosa,  sugli argini e sul ponte,  sfiorati appena dalla luce del mostro balenante, apparivano  lucidi per il sudore  i visi degli spettatori  e  sconvolti dentro da un timore ancestrale di dannazione e  morte. Tuttavia, ugualmente, ma come timorosi, si protendevano in avanti a guardare dall’alto la strana danza  ritmata dal tamburo,  rivelando nello sguardo un desiderio folle: godere intensamente e morire dannati dal macabro richiamo. Terrore e piacere assaporato nel corpo fremente di sensualità primordiale, piacere e morte, come se all’uomo fosse proibito godere e insieme continuare a vivere.

Mentre il fuoco interno diminuiva sempre più d’intensità gemendo lugubre nel corpo informe, danzando si  accartocciava sempre più l’orrenda creatura, finché  lentamente sfrigolando il fuoco si spegneva del tutto.  Di quella massa di carta riarsa, inerte a terra, miseramente sfatta, adesso non rimanevano altro che fragili farfalle nere bruciacchiate, sollevate appena qua e là dal vento caldo. Di colpo taceva il suono del tamburo. Buio improvviso e silenzio di morte.

Ma ecco improvvisi jochi ‘i focu cominciavano a salire veloci verso il cielo nero senza luna, dal greto alle stelle a lambire lo spazio senza tempo. Dalle terrazze e da sopra gli argini, scrosci di emotive risate manifestavano, a livello inconscio, un dolce senso di liberazione e di speranza.  Non si vedeva la luna piena ancora dietro la montagna lontana, però già il chiarore ne stagliava il profilo con la sua luce bianca. E proprio da lassù,  dal versante di sinistra,  sembrava  giungere il sogghigno minaccioso del torrente. Nella notte di sofferenza ‘a χumara stava meditando con ira la faida invernale per la vergogna del suo letto lordato e dissacrato.  Vendetta terribile sarebbe stata,  accresciuta da mesi di paziente attesa,  ira distruttrice che a marzo avrebbe spazzato  ogni cosa e coperto di fango gli orti sudati degli uomini infami e irriverenti.

 

Mariella Di Pasquale

 

 

 

 

 

 

 

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