Piazza Scala

 

 

Ho seguito, sulle colonne di “Libertà”, la polemica sulla caccia, sulla presenza di lupi, cinghiali, nutrie non più tanto lontani dai fondo valle, dai paesi e dalla stessa città. Alcuni interventi erano pacati ed equilibrati, altri più radicali, ed alcuni, come spesso accade per altre tematiche, poco informati e faziosi.

Io sono un vecchio cacciatore, da diversi anni non più in attività per ragioni, ahimè, anagrafiche.  Iniziai addirittura  a cacciare da bambino, dopo un adeguato periodo di istruzione ed apprendistato, centrato soprattutto sulla sicurezza. Mio padre, cacciatore appassionato, ci teneva che anch’io crescessi con la sua grande passione. Diceva: un fucile è sempre pericoloso, anche quando è scarico. Voleva dire che non si sa mai.

Lo seguivo per campi, boschi e colline. Non avevo ancora l’età per una licenza di caccia, ma portavo ugualmente il mio Flobert calibro 9 che sparava piccole cartucce a pallini, adatto solo per passeri e merli, costruito artigianalmente dall’armaiolo Bricchi di via Calzolai, che allora si chiamava Via Re Umberto. Veramente, non era legale che io portassi in giro un fucile, ma a quei tempi si chiudeva un occhio.

Per tutto il resto, imparai a rispettare le regole che non erano poche. Apertura a fine agosto per la selvaggina “di passo”, a metà settembre per la stanziale, divieto del cane segugio in pianura, rispetto delle zone di ripopolamento e delle specie protette, chiusura per tutti all’8 dicembre,  eccetera.

Come mio padre, consideravo la caccia un’attività sportiva, salutare, finalizzata al godimento della natura, in compagnia di amici, nelle nostre campagne verdi, sulle nostre colline e montagne, agli incontri con la saggezza dei contadini e dei montanari, molto poveri a quei tempi, ma generosi con il loro pane di casa, profumato anche dopo una settimana, la loro polenta, il vino aspro ma genuino,  sempre interessati a parlare con noi di città.

Posso assicurare che il nostro modo di intendere la caccia aveva poco a che vedere con l’abbattimento finale della selvaggina. Era la difficoltà della ricerca,  l’esplorazione di nuovi luoghi,  la passione del nostro cane,  la voglia di scarpinare dalle prime luci dell’alba al tramonto, l’essere soli in mezzo alla natura poco frequentata dagli umani, il suono lontano delle campane, il muggito delle mucche  sul versante opposto della montagna, il sorgere del sole, il mare di nebbia sul fondo valle, i colori dell’autunno.

Giudicavamo negativamente le invasioni dei pullman dal bresciano, dal bergamasco, dal milanese, cariche di cacciatori da capanno, con le loro cassette di cartucce da scaricare per tutta la giornata su tutto quanto si muoveva sugli alberi e nei campi. Era tiro a volo, non caccia, con il fine ultimo e principale della “polenta e osei”. Ben poche erano le pernici o le coturnici che riuscivamo a rimediare nel corso della stagione, più, magari, un paio di lepri,  che finivano nella casseruola di nostra madre prima e di nostra moglie poi, ma per noi non era la cosa principale.

E’ vero che la caccia è sempre stata una prerogativa del genere umano, forse da migliaia di anni e l’istinto, anche indipendente dalle necessità alimentari, si è tramandato fino a noi.

Confesso che ormai da molti anni, anche a causa dell’evoluzione deteriore di questa attività,  del proliferare delle riserve dove gli animali sono allevati e finiscono per somigliare di più a quelli da cortile, dalla facilità di arrivare ovunque,  su strade asfaltate,  nel cuore delle nostre belle montagne che una volta ci intimidivano per le loro difficoltà, i miei istinti hanno finito per raffreddarsi.

Sono sicuro che non avrei animo a sparare a un capriolo o a un cinghiale. Del resto, anche a quei tempi, non avevo animo a finire un animale ferito. Lo lasciavo fare ad altri. Solo due volte nella mia vita mi trovai di fronte, rispettivamente,  a un capriolo e a un camoscio, sulle Alpi, e non me la sentii di sparare. Da noi non esistevano e non erano ancora comparsi nemmeno i cinghiali che ora fanno danni alle coltivazioni.

Sono un pentito? Probabilmente. Penso tuttavia che molti di coloro che scrivono contro la caccia e l’uccisione (oggi molto controllata e pianificata) di animali selvatici non si rendano conto  di questi due fatti: 1) il numero e la diffusione di molte specie vanno tenuti sotto controllo nell’interesse stesso della conservazione e della salute delle stesse specie,  alcune delle quali, peraltro,  sono dannose per l’ambiente;  2) gli oppositori militanti della caccia sono quasi sempre carnivori e non pensano alle mattanze di animali domestici, e alle sofferenze loro inflitte dagli uomini, che avvengono a migliaia di capi ogni singolo minuto nel mondo. Dovrebbero, almeno una volta nella vita, visitare un pubblico macello.

 

Giacomo Morandi - marzo 2014

 

 

 

 

 

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Piazza Scala - marzo 2014