Intervenire in qualche modo a difesa delle banche è sicuramente sospetto, me ne rendo conto, per un ex bancario con quarantatre anni di servizio, ma mi illudo di poter ragionare e quindi spiegarmi pacatamente anche in un periodo di così scarsa popolarità del sistema, tanto più che non è mia intenzione descrivere solo un giardino di rose.

Anzitutto, dirò che a causa delle riforme radicali introdotte negli ultimi tre lustri un po’ in tutto il mondo e anche da noi, queste istituzioni non sono più le stesse dei miei tempi, quando esisteva per legge una netta distinzione fra banche commerciali e banche d’investimento, fra finanziatori a breve termine a favore dell’attività quotidiana delle imprese e delle persone fisiche e istituzioni specializzate nell’attività finanziaria vera e propria, nell’intermediazione, nella partecipazione attiva al rischio d’impresa. Non esisteva ancora, se non su scala molto ridotta, il trading in prodotti finanziari derivati, anzi, non esistevano nemmeno questi prodotti che poi hanno tentato così tanti banchieri, tesorieri di società anche medio piccole, amministratori pubblici, solleticati dalle possibilità o dal sogno di facili guadagni nel breve periodo.

Detto questo, tuttavia, e riconosciuto che molte banche italiane, soprattutto le più grosse, a rimorchio di quanto già stavano facendo le multinazionali bancarie inglesi, tedesche, francesi e soprattutto americane, sia pure su scala molto più ridotta di queste ultime, hanno incrementato le loro attività finanziarie a scapito di quelle tradizionali, trovo molto ingiuste le accuse indirizzate senza distinzioni a tutto il sistema bancario italiano di aver prosciugato senza motivo il credito alle imprese e alle famiglie in questo momento di crisi.

Le banche, e il grosso pubblico spesso non se ne rende conto, sono imprese private la cui attività principale è quella, in primis, di raccogliere denaro, remunerandolo con tassi d’interesse dettati dalla contingenza del mercato e, checché se ne dica, dalla concorrenza nazionale e internazionale (soprattutto in ambiente Euro), direttamente dai loro clienti risparmiatori o raccogliendolo sui mercati interbancari o obbligazionari. Il denaro raccolto deve essere impiegato in vari modi, prestandolo a imprese e a privati, a tassi che assicurino non solo la copertura delle spese di gestione, ma anche un’ adeguata remunerazione del capitale investito dai loro azionisti, al netto di eventuali perdite (le famose sofferenze) sempre possibili, anzi patologiche in detta attività. Le stesse banche poi parcheggiano parte dei loro fondi in titoli di stato, con rischio almeno teoricamente inesistente e con remunerazioni ovviamente più basse di quelle ricavate dalla loro attività commerciale, ma anche questi impieghi sono essenziali per l’economia del paese.

E’ ovvio che in tempo di crisi, quando il giro d’affari di molte aziende si contrae o addirittura è in pericolo la stessa sopravvivenza delle stesse, i termini di pagamento si allungano, la disoccupazione e la precarietà del lavoro si espandono, i banchieri devono essere più prudenti, come del resto qualsiasi imprenditore che è costretto a rivedere, nei confronti di alcuni suoi clienti, le politiche di credito e dilazione dei pagamenti. Se un mio buon cliente, al quale per anni ho concesso di pagarmi a 90 o 180 giorni, si trova in gravi difficoltà, posso aiutarlo per un po’, posso accompagnarlo ma nei limiti della solidità della mia stessa azienda. Ad un certo punto non posso più consegnargli la mia merce con il rischio di non vederla pagata. Lo stesso discorso vale per le famiglie. Se il funzionario di banca, in base ai precisi parametri dettatigli dalla sua direzione, vede che la controparte ha un reddito precario, una posizione di lavoro poco sicura, non ha dietro di se una storia virtuosa controllabile, non sembra palesemente in grado di addossarsi sul lungo termine le rate del mutuo, fino a un certo punto è autorizzato ad accettarne il rischio. Non è il tesoriere della Caritas, ma un commerciante, né più né meno.

Recentemente ho letto su Libertà la lettera di un proprietario di casa che ha rifiutato di affittare un appartamento a un candidato inquilino lamentando che una banca non aveva approvato la relativa fidejussione a garanzia del pagamento dell’affitto. Bene, in quel caso la banca non aveva accettato di assumersi il rischio, né più ne meno come aveva fatto lui stesso.

 

Giacomo Morandi - marzo 2012

                                                                                              

 

 

 

 

 

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