Il collega Franco Rossi (Milano) ci ha segnalato
l'articolo apparso sulla " Lettura del Corrriere della Sera " pubblicato
domenica 4 settembre 2013 con il titolo Crepuscolo del bancario, in cui
vengono citati il grande Presidente Raffaele Mattioli e il poeta Sergio
Solmi capo dell'Ufficio Legale della Comit. Il pezzo è molto significativo
per un parallelo tra i nostri tempi e gli attuali: crediamo che interesserà
tutti i colleghi. Accludiamo anche uno scritto di G. Rugarli, ex collega in
Comit.
Piazza Scala
Travolto dalla rete e dalla crisi è diventato insostenibile anche per registi e scrittori
Sarà stato pure uno spot, ma Luciana Littizzetto che
con lo sguardo un po’ malandrino dice «Ti amo, bancario» è stato l'ultimo
messaggio appassionato destinato a chi lavora allo sportello. Poi i crac
Cirio e Parmalat, i derivati, i subprime americani, i mutui che non ci sono
più, le richieste di rientro, il credit crunch, insomma gli scandali e poi
la crisi che ha cambiato il mondo hanno fatto purtroppo un miracolo, al
contrario: hanno trasformato i bancari in banchieri, almeno nella percezione
di correntisti e risparmiatori, candidati acquirenti di casa o di una nuova
cucina, e la filiale è diventata la casa del diavolo, da detestare e
dileggiare, sfaticata e ostile. Infine è arrivata la lettera: nei giorni
scorsi l’Abi, la Confindustria del credito, ha disdettato il contratto di
categoria: «Questi livelli di occupazione e retribuzione non sono più
sostenibili. Il modello va rivisto».
Tutto è cambiato, sembra, in poco più di dieci anni. Ai tempi del «ti amooo»,
e si parla del 2002, la pubblicità ancora rappresenta gli scampoli del mito,
ciò che resta, e non è poco, di quel che è stato per decenni il bancario
nell’immaginario domestico: posto fisso, retribuito con quattordici o
quindici mensilità, bonus come le borse di studio ai figli dei dipendenti e
il passaggio «ereditario» della scrivania: quando il papà va in pensione il
suo ragazzo (più raramente sua figlia) ha il diritto, o per meglio dire la
garanzia, di essere assunto. Un turnover che richiama consuetudini
artigianali e che magari talvolta ha richiesto l'assolvimento di un obbligo
accessorio «adesivo», cioè l’iscrizione al sindacato. Cantavano i Gufi nel
1966: «Io vado in banca, stipendio fisso, così mi piazzo e non se ne parla
più». E in effetti fra il 1970 e il 1980 gli occupati in aziende di credito
passano da 151 mila a quasi 290 mila.
Del resto, quarant’anni fa per il neo-ragioniere, trenta e vent’anni fa per
il neo-laureato alla Bocconi, era un’abitudine più che un’aspirazione
ricevere subito a casa varie offerte di lavoro. E quelle che avevano una
banca per mittente ottenevano nella maggior parte dei casi il favore dei
genitori. Anche perché, soprattutto alla fine degli anni Ottanta,
l’auto-marketing aveva portato alcuni istituti di credito a usare toni
accattivanti di sfida («Stiamo cercando coloro che saranno dirigenti fra
16-17 anni») o perentori (del tipo: «Si presenti alle 9 del tal giorno per
un colloquio di lavoro») ai quali era impossibile (o quasi) resistere.
Fatto sta che, fino a quando ha funzionato la logica collettiva
dell’ascensore sociale, l’impiegato di banca ha rappresentato il miglior
traguardo possibile per livello retributivo, tranquillità di posizione e
garanzia di (più lenta) carriera, grazie agli automatismi inseriti nei
contratti del settore dal 1973. E dunque considerato più brillante, colto e
pagato meglio di un travet della pubblica amministrazione o di uno
dipendente postale. Immagine confermata dalle analisi sociologiche che, fra
gli anni Ottanta e Novanta, hanno riguardato la figura professionale e
l’identità sociale del bancario (come quelle realizzate da Giovanni Gasparini
a Milano, Giancarlo Tanucci a Roma e Roberto di Monaco a Torino), che viene
collocata «a un livello medio-superiore di valorizzazione sociale: è una
professione caratterizzata da evidenti segni di prestigio, status sociali
riconosciuti o ritenuti tali».
L’immagine che brilla nelle ambizioni demoscopiche è però rimasta fuori
dalla porta sia nel cinema sia nella letteratura. Non è l'aspirante
direttore «sognato» dalle mamme il protagonista di film come Rag. Arturo De
Fanti, impiegato bancario diretto da Luciano Salce nel 1980 e interpretato
da Paolo Villaggio e Catherine Spaak. O come Impiegati che Pupi Avati gira
nell’85: commedia all’italiana il primo, simbolica rappresentazione dello
yuppismo il secondo. E nei romanzi prevale l’oscurità di una professione
soffocata dalla routine delle mansioni e da piramidi gerarchiche spesso
grottesche costruite su automatismi e raccomandazioni piuttosto che su
meriti. Oscurità vissuta in alcuni casi in prima persona. Italo Svevo,
costretto dal fallimento dell’azienda patema a vent’anni di lavoro «forzato»
nella filiale triestina della viennese Banca Union, si descrive in Una vita
nel protagonista Alfonso Nitti, sopraffatto da un ambiente, quello bancario
appunto, che gli è estraneo. Il suicidio è la «morte in banca», chiave di
lettura che diventerà titolo del primo romanzo di Giuseppe Pontiggia,
entrato nel '51 al Credito italiano dopo che la morte del padre lo ha
indirizzato verso un destino di lavoro a lui estraneo: «In banca sono sempre
stato un "turista"». E dieci anni dopo ha lasciato il «posto fisso» per
insegnare alle scuole serali, incoraggiato a continuare a scrivere anche da
Sergio Solmi, il poeta capo dell’ufficio legale della Comit che, quando il
libro di Pontiggia è stato pubblicato nel '59 lo ha portato a Raffaele
Mattioli. «Ha visto cosa scrive?», gli ha domandato. «Ma lui lavora per la
concorrenza», è stata la risposta del banchiere-umanista. . Cosi come ha
lavorato per la «concorrente» Cariplo (poi, come Comit, aggregata in Intesa)
Giampaolo Rugarli: entra nella cassa di risparmio milanese perché glielo
impone il padre, dirigente di Bankitalia. Lui voleva iscriversi a lettere.
Porterà la sua «morte in banca» in diversi romanzi e racconti, uno dei quali
Digitazione, pubblicato nel 1988 da «Economia e management», prefigura
l’invasione di computer e tecnologie allo sportello. Che sarà una delle
ragioni determinanti del declino economico, sociologico, professionale e «aspirazionale»
del bancario. Mitico, anzi gradualmente ex.
Sì, perché il suo crepuscolo ha i tempi lunghi delle metamorfosi globali. E
i primi a raccontare la trama futura sono stati proprio gli scrittori.
Quando, nel novembre 1993, l’allora direttore generale della Banca d’Italia,
Lamberto Dini, precede l’apertura della vertenza per il rinnovo del
contratto di circa 340 mila bancari con «l’invito» a ima svolta —
attenuando automatismi di carriera ed economici perché gli oneri sono
diventati insostenibili e solo così si possono difendere i tanti posti a
rischio — è proprio Rugarli a scrivere sul «Corriere della Sera»: «Sia resa
lode a Dio, finalmente. A mia memoria mai si conobbero prestatori d’opera
più infelici e, chi sa perché, più invidiati. Quasi tutti i bancari
considerano il lavoro un ripiego dal quale sognano di evadere. Non scappano
perché si arrendono al ricatto della sicurezza: mi annoio, mi deprimo, mi
rimbecillisco ma, fuori di qui, dove vado?». E Pontiggia nel '97, quando
si parla di tagli e ristrutturazioni, avverte il pericolo «che si licenzino
competenze preziose, ma sottolinea che «il privilegio del posto sicuro
favorisce indolenza e parassitismo ed è incompatibile con i tempi».
E siamo solo agli inizi, il primo bancomat approda in Italia nel 1976 a
Ferrara. Nel 2012 le operazioni di prelievo automatico, che hanno quindi
«saltato» lo sportello, sono state in Italia 773 milioni e le carte bancomat
sono 33,2 milioni. È la tecnologia della disintermediazione che avanza e di
cui le «macchinette atm» sono forse la forma più primitiva. Perché la vera
rivoluzione è nel web, nell’internet banking. Il nostro Paese è ancora
indietro, ma oltre 26 milioni di persone utilizzano internet, e l’8o% di
loro si collega con la banca. Per fare bonifici o compravendere titoli. Non
ha sorpreso nessuno dunque che l’Abi ai sindacati nel presentare i «fattori
di crisi» abbia sottolineato che in Italia ci siano ancora 55
sportelli bancari ogni cento mila abitanti contro i 41 medi
in Europa e i 20 in Gran Bretagn. Le filiali si svuotano, sono troppe,
sovradimensionate. Non per nulla le società di consulenza come McKinsey
parlano per il futuro di banche light, ascoltate con attenzione da big come
Unicredit 0 Intesa Sanpaolo. E chi la banca leggera l’ha costruita negli
ultimi anni, come Mediobanca con Chebanca! per il reclutamento iniziale non
ha puntato su bancari laureati in economia: in prevalenza ha pescato nel
commercio, dove il cliente va «catturato» e resta fedele solo se è
soddisfatto.
Tra i fattori di crisi che portano a stimare oggi in circa 20 mila i posti a
rischio non c’è però solo il web. Per la «nuova siderurgia», come nel '95 ha
chiamato il settore del credito il banchiere Gianni Zandano, gli ultimi 15
anni sono stati contrassegnati anche da aggregazioni che hanno prodotto
esuberi, e dalla grande crisi del 2007 che ha scosso dalle fondamenta
modelli di business e parametri di redditività del sistema. Il bancario con
extramensilità e benefit è diventato «insostenibile». «Figura indebolita»,
dice il presidente del Censis Giuseppe De Rita, «anche dall’inserimento di
venditori di fondi e consulenti, che lo hanno sostituito nella vita
finanziaria delle famiglie. La crisi di identità gli impedisce di
rinnovarsi, di riprendersi responsabilità e posizione». Sparito dunque da
ambizioni, cinema, letteratura e perfino dalla sociologia, che preferisce
l’impiegato statale per le proprie indagini, il bancario del posto fisso da
mito arretra a miraggio. Più che diventare «liquido», per dirla con Zygmunt
Bauman, il suo mondo antico costruito su certezze, garanzie e routine appare
destinato a evaporare e disperdersi. In rete.
Fenomenologia d’un
mestiere
Vita tra dottor Jekyll e mister Hyde
(più il gorgonzola)
di Giampaolo Rugarli
I
miei ricordi della banca sono lontani, e credo che molte cose siano cambiate
(se in meglio . o se in peggio non so). Ai miei tempi la banca offriva due
volti e, con facile paragone, si potrebbero evocare i due più celebri
personaggi di Stevenson, intendo il dottor Jekyll e il signor Hyde.
Lavoravo nella segreteria generale della Cassa di Risparmio milanese, oggi
inghiottita da altro istituto. Nei miei compiti rientrava un po’ di tutto,
il che mi consentiva di affacciarmi sulle materie più disparate e più
strane. Per esempio, mi è rimasta una certa competenza sul formaggio
gorgonzola. Poi rammento una pratica intestata «Corrispondenze non
identificabili» e un’altra censita come «Condoglianze e onoranze funebri».
Niente di strano: si rispondeva a chiunque avesse mandato un segnale, così
scrissi a una folla dì svampiti e di dolenti.
Queste sono minime curiosità che possono indurre al sorriso. In realtà la
politica del credito (chi finanziare, per quali scopi, in che misura), prima
dì essere deliberata dall’amministrazione e dalla direzione generale, veniva
filtrata dagli uffici: e non era un gioco ragionare sulle prospettive di
sviluppo di una o di un’altra iniziativa. Il dottor jekyll vegliava su di
noi.
Ma è giusto dare anche al signor Hyde quanto gii spetta. E parlo non tanto
di umana insensibilità o di umana cattiveria, ma di imbecillità, abbondante
anche in passato. Così rammento l’obbligo di indossare comunque giacca e
cravatta, di non usare i cessi riservati ai pezzi grossi, di rispettare
l’orario spaccando il minuto, sotto comminatoria di terribili sanzioni, di
non contraddire mai i superiori e di essere sempre acquiescenti (meglio
ancora: servili) e così via.
Sembrerà incredibile, ma sino a mi certo punto feci carriera: ed ebbi
l’onore, nell’esercizio delle mie funzioni, di conoscere Papa Montini, il
presidente Saragat, Silvana Mangano e altri.
Ho un bellissimo ricordo di alcuni colleghi. E vorrei dire qualche parola di
Augusto Bove, scomparso prematuramente, commesso, reduci da mille mestieri,
di istruzione incerta, che al presidente Giordano Dell’Amore (personaggio
aulico, attentissimo alle forme), rese omaggio dandogli del tu e chiamandolo
«Eminenza». Bove pensò che il titolo di «Eminenza» fosse il massimo, e
quanto al tu, lui, ex minatore in Belgio, non avrebbe saputo esprimersi
altrimenti. È ad Augusto Bove che penso con più affetto, con più emozione
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Piazza Scala - ottobre 2013