Pubblicato il 12 novembre 2010 sul quotidiano "LIBERTA' di Piacenza



 

Mi è capitato fra le mani un libro che riporta gli atti di due interessanti convegni svoltisi a Verzegnis, in Carnia, nel 2005 e nel 2007, riguardanti l’”invasione” di buona parte di quella regione e di alcune valli friulane da parte di truppe cosacche con famiglie e animali al seguito. Il primo convegno fu organizzato in occasione del sessantesimo anniversario della Liberazione e il secondo per la presentazione di uno studio su “I cosacchi in Italia – 1944-45”. Il tema trattato nei due incontri, ai quali hanno partecipato e collaborato studiosi di varie parti d’Italia e docenti delle università di Udine e Trieste, mi ha interessato anche perché si è parlato dell’impiego, nel piacentino e nel parmense, della Divisione Turkestan, quella grande unità costituita dai tedeschi con ex prigionieri sovietici dell’Armata Rossa, comandata da ufficiali tedeschi, utilizzata prima in Francia e poi in Italia per la lotta contro la Resistenza e che imperversò anche da noi durante il rastrellamento, dalla fine di novembre 1944 a gennaio inoltrato 1945..
La storia dell’ “invasione” della Carnia e di qualche vallata del Friuli da parte di quell’armata agli ordini del generale Krasnov, un cosacco del Don che aveva già combattuto nei primi anni venti contro i bolscevichi con le truppe “bianche”, è poco conosciuta in Italia e fa parte delle numerose rimozioni di episodi scomodi o molesti degli anni seguenti la II guerra mondiale. Come noto, le truppe “bianche” antibolsceviche, comandate da generali dello Zar si opposero alla Rivoluzione russa del 1917, appoggiate da contingenti francesi e inglesi e furono battute dai bolscevichi comandati da Lev Trotsky.
Le truppe cosacche di Krasnov, nel corso della II guerra mondiale, furono arruolate dai tedeschi in parte fra i numerosi prigionieri sovietici nei campi di concentramento e fra gli oppositori del regime comunista che si ritirarono dalla Russia insieme alle armate tedesche a partire dal 1942. Molti avevano le loro famiglie al seguito, vecchi, donne, bambini, perfino i loro preti (i pope), cavalli, cammelli e provenivano dall’Europa dell’est, Ucraina, Russia, qualche gruppo musulmano proveniente dalle regioni caucasiche. Arrivarono in massa in Carnia e in Friuli e occuparono con la forza interi villaggi, spesso cacciando gli italiani dalle loro case, instaurando poteri cosacchi e mal sopportando quelli italiani che dovettero barcamenarsi fra un sopruso e l’altro, fra un rastrellamento e l’altro. Durante l’estate del 1944 le Brigate partigiane avevano liberato buona parte della regione e avevano costituito una “repubblica” libera che i tedeschi volevano riconquistare perché interrompeva o minacciava le loro linee di rifornimento con la Germania e l’Austria.
I Cosacchi non sono considerati un’etnia, possono essere definiti come un ceto, una classe. Erano popoli guerrieri, tradizionalmente al servizio degli zar. I tre principali gruppi, quelli del Don, quelli del Terek e del Kuban erano antisovietici e credettero alle promesse naziste di costituzione di una loro nuova patria inizialmente nella Russia occidentale o in Ucraina, promessa che difficilmente sarebbe stata mantenuta perché gli stessi territori dovevano servire per l’espansione tedesca verso oriente (“lo spazio vitale”), poi, dopo la ritirata del fronte orientale sotto l’incalzare dell’Armata Rossa, nell’Italia del nord e precisamente in Carnia e in parte del Friuli, il “Kosakenland”, come loro lo chiamarono che, non dimentichiamolo, era ormai incorporato, con le provincie di Belluno, Udine, Gorizia e Trieste, nel grande Reich germanico (l’Adriatische Kostenland). Nel novembre 1944 i tedeschi, con al fianco contingenti cosacchi e varie formazioni repubblichine, scatenarono un grande rastrellamento che seminò lutti e distruzioni e portò alla riconquista dei territori occupati dai partigiani garibaldini e delle brigate Osoppo che nei mesi precedenti avevano costituito la libera “repubblica” della Carnia.
I convegni hanno messo in luce il periodo nel quale i friulani e i carnici dovettero convivere, volenti o nolenti, con questi invasori, molte decine di migliaia, che si sentivano ormai padroni di quella terra. Da alcuni diari e qualche testimonianza sono emersi anche alcuni episodi di civile convivenza con quelle povere famiglie, nonostante la povertà delle popolazioni locali e le ristrettezze dell’economia di guerra. Anche in materia religiosa (i cosacchi erano in maggioranza cristiani ortodossi con una nutrita minoranza di musulmani) vi furono episodi di convivenza se non di collaborazione fra i parroci cattolici e i pope ortodossi.
L’occupazione terminò a fine aprile 1945 con una tragica ritirata verso l’Austria attraverso i passi alpini e successivamente con la consegna, da parte degli inglesi, di gran parte dei cosacchi collaborazionisti all’Armata Rossa, come stabilito dagli accordi di Yalta. Gran parte di loro fece poi una brutta fine, molti i condannati a morte e fucilati, molti altri, con le famiglie, deportati nei campi di lavoro.
La vicenda ha molte analogie, com’è stato rilevato nel corso dei convegni, con quella dei cosiddetti “mongoli” (in realtà turchestani, kazaki, kirghishi, caucasici e qualche ucraino) impiegati dai tedeschi sul nostro territorio, dal parmense al piacentino all’Oltrepò pavese, fra novembre 1944 e gennaio 1945 per il grande rastrellamento che tanti lutti e distruzioni causò nelle nostre montagne.
Come noto, si trattò della famosa Divisione Turchestan comandata dal generale tedesco Von Heigendorf, con ufficiali tutti tedeschi, reclutata fra i prigionieri dei campi di concentramento, disgraziati in buona parte semianalfabeti che accettarono di arruolarsi per sfuggire agli stenti dei campi, ai quali era stata data mano libera per il saccheggio e lo stupro. La divisione imperversò per due lunghi mesi affiancata dalle varie unità della R.S.I. ed è inutile qui rievocare quel tragico e triste periodo, fin troppo noto.
Ho qualche ricordo personale di quei giorni. Arrivarono a Rivergaro dopo qualche giorno di combattimenti in Val Tidone, nell’alta Val Trebbia e, da noi, puntate di forze repubblichine alle posizioni partigiane sulle colline sovrastanti il paese. Io avevo allora quindici anni e fuggii con mio padre e altri verso l’alta valle per passare poi in Val Nure man mano che le formazioni partigiane si ritiravano combattendo, fino al Passo del Cerro, a fine novembre. Mi separai da mio padre a Bettola e, con una gran camminata notturna attraverso boschi e montagne sotto la pioggia ritornai a Rivergaro dove ero sfollato con la famiglia.
Un paio di giorni dopo arrivarono i cosiddetti mongoli anche a casa nostra. Parcheggiarono tre carriaggi sotto un nostro portico e requisirono alcune stanze per alloggiarvi ufficiali e soldati. In casa mia requisirono una stanza da letto per alloggiare un capitano tedesco, un omone che ci disse subito “…io avere conto aperto con partigiani.” Mia madre si lasciò scappare un “…e viceversa” che l’altro non afferrò, fortunatamente. Tutto sommato il capitano, a parte il cipiglio e la freddezza nei nostri confronti, nel mese in cui soggiornò a casa nostra, si comportò correttamente.
Un’altra stanza, al piano terreno della nostra casa, fu adibita a magazzino di alimentari. Mia madre aveva un’altra chiave e qualche volta aprì furtivamente quella porta ritagliando qualche bella fetta di carne dai “quarti” appesi al soffitto e “rubando” qualche pagnotta di segale dura come cemento. Riusciva così, con indubbio coraggio, a sfamare con qualche saltuario pasto un po’ più decente del solito noi tre figli. Anche i tre carriaggi sotto il portico contenevano quelle pagnotte e di tanto in tanto anche noi ragazzi ne facevamo sparire qualcuna.
In una casa vicina, abitata dai miei zii, s’installarono due soldati, un turchestano di nome Stephan e un ucraino chiamato Nicolai. Presi individualmente erano bonaccioni, ma li vidi una volta in veste minacciosa. Una voce li chiamò in tedesco dalla strada e loro balzarono in piedi, afferrarono i fucili e li puntarono su di noi. Non capimmo perché. Erano analfabeti e non conoscevano nemmeno i nostri cibi. Mangiavano lardo e molto strutto che chiamavano “burro maiala”. Un giorno due loro commilitoni vennero in casa e ci rubarono, con altre cose, la nostra preziosa radio. Nicolai ce la fece restituire.
Sparirono improvvisamente dopo Natale e non ne sapemmo più nulla. Forse erano passati con i partigiani, come molti loro commilitoni dopo la fine del rastrellamento o forse, dopo la fine della guerra, finirono nelle grinfie di Stalin che non perdonò loro certamente di aver combattuto a fianco dei nazisti. Angelo Del Boca, allora partigiano, racconta che a molti di loro fu rilasciata un’attestazione di aver combattuto dalla parte della Resistenza, ma non si sa se bastò a cambiare il loro destino in patria.
Ricordo la notte in cui, sotto una gran nevicata, passarono sulla statale centinaia di carri in direzione di Piacenza. Per tutta la notte gli zoccoli dei cavalli risuonarono sulla strada, attutiti dalla neve abbondante. Poi, silenzio. Se n’erano andati a fine rastrellamento, chissà per quale destinazione.
Di loro è rimasto un canto, struggente, poi adottato dai partigiani di varie regioni dell’Italia settentrionale che, in italiano, diceva “Fischia il vento, soffia la bufera, scarpe rotte eppur bisogna andar”.
Giacomo Morandi

 

 

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