Mi è capitato fra le mani un libro che riporta gli atti di due
interessanti convegni svoltisi a Verzegnis, in Carnia, nel 2005 e nel 2007,
riguardanti l’”invasione” di buona parte di quella regione e di alcune valli
friulane da parte di truppe cosacche con famiglie e animali al seguito. Il
primo convegno fu organizzato in occasione del sessantesimo anniversario
della Liberazione e il secondo per la presentazione di uno studio su “I
cosacchi in Italia – 1944-45”. Il tema trattato nei due incontri, ai quali
hanno partecipato e collaborato studiosi di varie parti d’Italia e docenti
delle università di Udine e Trieste, mi ha interessato anche perché si è
parlato dell’impiego, nel piacentino e nel parmense, della Divisione
Turkestan, quella grande unità costituita dai tedeschi con ex prigionieri
sovietici dell’Armata Rossa, comandata da ufficiali tedeschi,
utilizzata prima in Francia e poi in Italia per la lotta contro la
Resistenza e che imperversò anche da noi durante il rastrellamento, dalla
fine di novembre 1944 a gennaio inoltrato 1945..
La storia dell’ “invasione” della Carnia e di qualche vallata del Friuli da
parte di quell’armata agli ordini del generale Krasnov, un cosacco del Don
che aveva già combattuto nei primi anni venti contro i bolscevichi con le
truppe “bianche”, è poco conosciuta in Italia e fa parte delle numerose
rimozioni di episodi scomodi o molesti degli anni seguenti la II guerra
mondiale. Come noto, le truppe “bianche” antibolsceviche, comandate da
generali dello Zar si opposero alla Rivoluzione russa del 1917, appoggiate
da contingenti francesi e inglesi e furono battute dai bolscevichi comandati
da Lev Trotsky.
Le truppe cosacche di Krasnov, nel corso della II guerra mondiale, furono
arruolate dai tedeschi in parte fra i numerosi prigionieri sovietici nei
campi di concentramento e fra gli oppositori del regime comunista che si
ritirarono dalla Russia insieme alle armate tedesche a partire dal 1942.
Molti avevano le loro famiglie al seguito, vecchi, donne, bambini, perfino i
loro preti (i pope), cavalli, cammelli e provenivano dall’Europa dell’est,
Ucraina, Russia, qualche gruppo musulmano proveniente dalle regioni
caucasiche. Arrivarono in massa in Carnia e in Friuli e occuparono con la
forza interi villaggi, spesso cacciando gli italiani dalle loro case,
instaurando poteri cosacchi e mal sopportando quelli italiani che dovettero
barcamenarsi fra un sopruso e l’altro, fra un rastrellamento e l’altro.
Durante l’estate del 1944 le Brigate partigiane avevano liberato buona parte
della regione e avevano costituito una “repubblica” libera che i tedeschi
volevano riconquistare perché interrompeva o minacciava le loro linee di
rifornimento con la Germania e l’Austria.
I Cosacchi non sono considerati un’etnia, possono essere definiti come un
ceto, una classe. Erano popoli guerrieri, tradizionalmente al servizio degli
zar. I tre principali gruppi, quelli del Don, quelli del Terek e del Kuban
erano antisovietici e credettero alle promesse naziste di costituzione di
una loro nuova patria inizialmente nella Russia occidentale o in Ucraina,
promessa che difficilmente sarebbe stata mantenuta perché gli stessi
territori dovevano servire per l’espansione tedesca verso oriente (“lo
spazio vitale”), poi, dopo la ritirata del fronte orientale sotto
l’incalzare dell’Armata Rossa, nell’Italia del nord e precisamente in Carnia
e in parte del Friuli, il “Kosakenland”, come loro lo chiamarono che, non
dimentichiamolo, era ormai incorporato, con le provincie di Belluno, Udine,
Gorizia e Trieste, nel grande Reich germanico (l’Adriatische Kostenland).
Nel novembre 1944 i tedeschi, con al fianco contingenti cosacchi e varie
formazioni repubblichine, scatenarono un grande rastrellamento che seminò
lutti e distruzioni e portò alla riconquista dei territori occupati dai
partigiani garibaldini e delle brigate Osoppo che nei mesi precedenti
avevano costituito la libera “repubblica” della Carnia.
I convegni hanno messo in luce il periodo nel quale i friulani e i carnici
dovettero convivere, volenti o nolenti, con questi invasori, molte decine di
migliaia, che si sentivano ormai padroni di quella terra. Da alcuni diari e
qualche testimonianza sono emersi anche alcuni episodi di civile convivenza
con quelle povere famiglie, nonostante la povertà delle popolazioni locali e
le ristrettezze dell’economia di guerra. Anche in materia religiosa (i
cosacchi erano in maggioranza cristiani ortodossi con una nutrita minoranza
di musulmani) vi furono episodi di convivenza se non di collaborazione fra i
parroci cattolici e i pope ortodossi.
L’occupazione terminò a fine aprile 1945 con una tragica ritirata verso
l’Austria attraverso i passi alpini e successivamente con la consegna, da
parte degli inglesi, di gran parte dei cosacchi collaborazionisti all’Armata
Rossa, come stabilito dagli accordi di Yalta. Gran parte di loro fece poi
una brutta fine, molti i condannati a morte e fucilati, molti altri, con le
famiglie, deportati nei campi di lavoro.
La
vicenda ha molte analogie, com’è stato rilevato nel corso dei convegni, con
quella dei cosiddetti “mongoli” (in realtà turchestani, kazaki, kirghishi,
caucasici e qualche ucraino) impiegati dai tedeschi sul nostro territorio,
dal parmense al piacentino all’Oltrepò pavese, fra novembre 1944 e gennaio
1945 per il grande rastrellamento che tanti lutti e distruzioni causò nelle
nostre montagne.
Come noto, si trattò della famosa Divisione Turchestan comandata dal
generale tedesco Von Heigendorf, con ufficiali tutti tedeschi, reclutata fra
i prigionieri dei campi di concentramento, disgraziati in buona parte
semianalfabeti che accettarono di arruolarsi per sfuggire agli stenti dei
campi, ai quali era stata data mano libera per il saccheggio e lo stupro. La
divisione imperversò per due lunghi mesi affiancata dalle varie unità della
R.S.I. ed è inutile qui rievocare quel tragico e triste periodo, fin troppo
noto.
Ho qualche ricordo personale di quei giorni. Arrivarono a Rivergaro dopo
qualche giorno di combattimenti in Val Tidone, nell’alta Val Trebbia e, da
noi, puntate di forze repubblichine alle posizioni partigiane sulle colline
sovrastanti il paese. Io avevo allora quindici anni e fuggii con mio padre e
altri verso l’alta valle per passare poi in Val Nure man mano che le
formazioni partigiane si ritiravano combattendo, fino al Passo del Cerro, a
fine novembre. Mi separai da mio padre a Bettola e, con una gran camminata
notturna attraverso boschi e montagne sotto la pioggia ritornai a Rivergaro
dove ero sfollato con la famiglia.
Un paio di giorni dopo arrivarono i cosiddetti mongoli anche a casa nostra.
Parcheggiarono tre carriaggi sotto un nostro portico e requisirono alcune
stanze per alloggiarvi ufficiali e soldati. In casa mia requisirono una
stanza da letto per alloggiare un capitano tedesco, un omone che ci disse
subito “…io avere conto aperto con partigiani.” Mia madre si lasciò scappare
un “…e viceversa” che l’altro non afferrò, fortunatamente. Tutto sommato il
capitano, a parte il cipiglio e la freddezza nei nostri confronti, nel mese
in cui soggiornò a casa nostra, si comportò correttamente.
Un’altra stanza, al piano terreno della nostra casa, fu adibita a magazzino
di alimentari. Mia madre aveva un’altra chiave e qualche volta aprì
furtivamente quella porta ritagliando qualche bella fetta di carne dai
“quarti” appesi al soffitto e “rubando” qualche pagnotta di segale dura come
cemento. Riusciva così, con indubbio coraggio, a sfamare con qualche
saltuario pasto un po’ più decente del solito noi tre figli. Anche i tre
carriaggi sotto il portico contenevano quelle pagnotte e di tanto in tanto
anche noi ragazzi ne facevamo sparire qualcuna.
In una casa vicina, abitata dai miei zii, s’installarono due soldati, un
turchestano di nome Stephan e un ucraino chiamato Nicolai. Presi
individualmente erano bonaccioni, ma li vidi una volta in veste minacciosa.
Una voce li chiamò in tedesco dalla strada e loro balzarono in piedi,
afferrarono i fucili e li puntarono su di noi. Non capimmo perché. Erano
analfabeti e non conoscevano nemmeno i nostri cibi. Mangiavano lardo e molto
strutto che chiamavano “burro maiala”. Un giorno due loro commilitoni
vennero in casa e ci rubarono, con altre cose, la nostra preziosa radio.
Nicolai ce la fece restituire.
Sparirono improvvisamente dopo Natale e non ne sapemmo più nulla. Forse
erano passati con i partigiani, come molti loro commilitoni dopo la fine del
rastrellamento o forse, dopo la fine della guerra, finirono nelle grinfie di
Stalin che non perdonò loro certamente di aver combattuto a fianco dei
nazisti. Angelo Del Boca, allora partigiano, racconta che a molti di loro fu
rilasciata un’attestazione di aver combattuto dalla parte della Resistenza,
ma non si sa se bastò a cambiare il loro destino in patria.
Ricordo la notte in cui, sotto una gran nevicata, passarono sulla statale
centinaia di carri in direzione di Piacenza. Per tutta la notte gli zoccoli
dei cavalli risuonarono sulla strada, attutiti dalla neve abbondante. Poi,
silenzio. Se n’erano andati a fine rastrellamento, chissà per quale
destinazione.
Di loro è rimasto un canto, struggente, poi adottato dai partigiani di varie
regioni dell’Italia settentrionale che, in italiano, diceva “Fischia il
vento, soffia la bufera, scarpe rotte eppur bisogna andar”.
Giacomo Morandi