un articolo di Arnaldo De Porti
Domenica 6 novembre 2011, l’Associazione Nazionale Carabinieri,
Sezione di Belluno, di cui anche lo scrivente si onora di far parte,
alla guida del suo presidente, Giovanni Franceschini, ha voluto
rendere omaggio alla memoria di un mondo particolare di persone che,
con i loro sacrifici e persino con la morte, hanno fatto crescere
l’Italia. Accolti con grande simpatia ed affetto dalla Presidente
dell’A.I.E.M., Associazione Italiana ex-Minatori, Avv. Barbara
Martinuzzo, la quale, nel mostrare e documentare ai numerosi ospiti
un mondo che sembra scomparso ma che invece è tuttora attuale, anche
se spesso dimenticato o addirittura tenuto nascosto specie in quei
paesi in cui la stampa non ha vita facile, ha voluto raccontare la
storia della miniera. Un mondo che, dalle numerose testimonianze
raccolte nel museo, è più che eloquente oltre che raccapricciante
per i rischi verso i quali tanti nostri fratelli, spesso per fame,
sono stati costretti ad inserirsi abbandonando la casa, la famiglia
e gli affetti più cari per guadagnare il pane. Di questi, molti non
sono più tornati e, coloro che sono tornati, hanno portato con se
ricordi dolorosi, di trattamenti anche disumani, incivili, ma anche
di malattie, come è accaduto anche al padre della Presidente dell’A.I.E.M.,
Arduino Martinuzzo.
Personalmente, ho parlato con alcuni dei minatori che sono ritornati
e mi ha fatto specie la seguente frase detta da uno di essi : “
Quando scendevamo in miniera, anche a 1000-1200 metri sottoterra, ci
auguravamo ogni volta di ...tornar a giorno ”.
Ho scritto diverse cose sulla miniera e vorrei trascriverle tutte,
ma tempo e soprattutto spazio, non consentono di farlo per cui mi
limito ad una sola riflessione da me scritta sul giornale che vede
il sottoscritto come Direttore e Barbara Martinuzzo come editore :
Scrivevo, qualche anno fa, …..omissis …
confesso con molta umiltà, chiedendone il perdono non al
confessore, ma a tutti i minatori di questo mondo, di essermi
interessato poco, almeno fino a questo momento, al mondo della
miniera. Molto verosimilmente avrà inciso anche una sorta di fobia
che mi assale quando entro in qualsiasi luogo chiuso, ma anche
perché, quando si è inseriti in altri contesti rispetto a quello di
cui sto parlando, si tende giocoforza a far mente locale in quella
realtà specifica a cui si deve pensare per scelta professionale, più
o meno voluta che sia.
Di certo, ragionando ora a freddo, non avrei mai scelto di lavorare
in miniera, non esimendomi peraltro dal pensare a chi oggettivamente
ci lavora, compromettendo spesso anche la propria vita, con dolori
immensi per i familiari che non vedono più tornare a casa il marito,
il fratello, il figlio od una persona cara. Non per niente c’è stato
chi ha detto che le miniere sono uno scandalo, se non addirittura un
crimine verso la l’umanità…
Fatto questo breve preambolo, come si fa a non pensare a tutti
coloro che, direttamente o indirettamente, sono morti o sono
diventati invalidi a vita per questo tipo di lavoro inimmaginabile,
brutale, pericoloso al massimo, tanto da preferire - come qualcuno
ha detto – l’andare in guerra a combattere…?
Non sto a raccontare fatti accaduti che ormai sono di pubblico
dominio: la morte di 262 minatori, di cui 136 italiani a Marcinelle
avvenuta ormai oltre cinquant’anni fa (1956) costituisce uno degli
eventi tragici che, anche se con dinamiche diverse rispetto ai
tantissimi morti causati dalla tristemente famosa Diga del Vajont, è
una tragedia che va ascritta alla storia, come monito solenne e
perenne ! Senza nessuna differenza fra l’una e l’altra ! Non mi
riesce infatti nemmeno ora, mentre sto scrivendo, ad immaginare gli
ultimi momenti di vita di questi minatori che erano lì per
guadagnare onestamente il pane per le loro famiglie, sempre in ansia
per la loro sorte.
Come già detto citando la Diga del Vajont, non ho voluto certo fare
una discriminazione fra le dimensioni delle due tragedie, ma
semplicemente ribadire agli uomini che così non si deve morire. O
peggio, far morire…
Da bellunese - allacciandomi al predetto accostamento, seppur
diverso, fra Vajont e Marcinelle, vorrei concludere, mutuando un
pensiero scritto da Dino Buzzati dopo la tragedia del 1956 :
“… immaginate quei 139 minatori italiani tutti in fila e dietro di
loro le 139 famiglie, padri, madri, mogli, figli, fratelli. Quanti
saranno ? Di certo più che sufficienti per formare un paese intero,
i cui abitanti, tutti con la nostra stessa faccia, sono piombati in
un’angoscia perenne e senza nome…”
Quelli del Vajont erano 3000, quindi una città. Cancellata in un
solo istante...
Le foto che seguono, come detto dianzi, parlano da sole: strumenti
primordiali, tute, trivelle, mazze, maschere antigas ed un sacco di
altre cose di cui la mia scarsa conoscenza in materia non mi
permette di elencare con il loro giusto nome, preferendo lasciare a
chi le guarda una più appropriata identificazione.
Ed alla fine, come dice il detto : ”Tutti i Salmi vanno a finire in
Gloria, ci siamo trovati tutti insieme per un ottimo pranzo a base
di pesce presso un famoso ristorante della zona, il cui titolare,
signor Ettore, ha fatto gli onori di casa… (anche di questo, le
foto).
Le fotografie (cliccare sulle miniature
per ingrandirle)
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