Di ritorno da un viaggio in Canada,
ho scritto un reportage un po’ apologetico destinato alla
pubblicazione sul quotidiano “Libertà” perché desideravo
condividere con i miei concittadini piacentini, piuttosto
ignoranti di quella particolare geografia che si spinge a
descrivere le zone del nostro pianeta così marginali e
decentrate rispetto alle antiche civiltà, le bellezze e i lati
positivi che indubbiamente esistono anche in quel grande paese,
così esposto ai venti gelidi che soffiano per una notevole parte
dell’anno dalle sconfinate lande polari ed artiche, ma, in
estate, spesso anche alle improvvise ondate di calura messicana
o caraibica.
Gli americani più estremisti, ancora dominati dall’atavico
livore per non essere riusciti nei secoli scorsi ad impadronirsi
neppure di uno solo dei numerosi iceberg che vagano sui mari
gelati del nord, insinuano che i cervelli dei canadesi sono
esposti al surgelamento da novembre ad aprile e che le loro idee
restano fisse come fumetti per lunghi mesi, per poi esplodere
all’improvviso nella tarda primavera. Purtroppo, dicono, lo
scongelamento è molto lento e incompleto prima dell’arrivo del
prossimo inverno.
E’ un discorso molto fazioso perché ormai la maggior parte dei
canadesi è di immigrazione recente e porta ancora con se un po’
di caldo dei mari del sud o della regione andina o è abituata al
gelo delle steppe asiatiche e ai gulag di staliniana memoria.
In giro per le città, infatti, vedi occhi a mandorla in
quantità, pelli gialle, ragazzine dalle gambe arcuate, tipi
abbronzati con i capelli ricci, magari tinti di rosso fuoco e le
parlate non potrebbero essere più varie. Lio Pin, Ciu Ku Tan, Ci
Ciu Ciu oppure Sgurotof, Palinovsky, Sbir cia mi, Wallenstein,
Werner Braun, Sput ta la, Green Katarr, e pure qualche Esposito
o Corleone. I Perrier e i Johnson stanno tappati in casa o in
giardino per l’eterno quotidiano barbeçue. Anche gli altri si
sono adattati presto a questa attività nazionale e squisitamente
nordamericana. Grasse salsicce, hamburger no-frills, kebab di
anziano montone, frankfurter di racoon con sottilette di latte
di squirrell, abbondanti dosi di ketchup, mustard o altra salsa
piccante da lasciare la bocca ardente. Uomini cuochi, grembiule
con la bandiera del Canada, stessa bandiera davanti a casa,
stampata sulle poltroncine del giardino e sul tetto della
macchina, magari appaiata a quella dello Sri Lanka.
Tutti giulivi, tutti innamorati della loro patria (vecchia o
nuova). Hanno perfino una regina che adorano soprattutto quando
porta il cappello a larghe tese rosa o giallo oppure un
cappellino stracolmo di fiori finti. La corona no. In strada no,
sarebbe pesante e poi qualche italiano di passaggio potrebbe
sfilargliela e scappare in Sicilia. E’ una regina un po’ in là
con gli anni, ma fa la sua figura con i vestiti confezionati
dalla sua sarta privata della Cornovaglia, ispirata dai modelli
di Dolce e Gabbana adattati per Piccadilly Circus. In compenso
abita a migliaia di chilometri di distanza e i benpensanti o gli
spiriti ribelli o al limite repubblicani se la sorbiscono solo
ogni due o tre anni.
E’ sempre accompagnata da quello spilungone di principe consorte
che non ha incarichi particolari salvo quello di parlarle del
più o del meno la sera nel grande letto d’oro di Buckingham
Palace, nel quale peraltro tassativamente non trovano
accoglienza altre dame di corte che simpatizzano con gli uomini
della famiglia reale.
I nativi indiani-canadesi sono in villeggiatura tutto l’anno
nelle loro sontuose riserve, per lo più nel nord gelido del
paese: Sono loro i veri canadesi e fanno la bella vita a spese
dei contribuenti che a suo tempo li hanno spossessati del loro
territorio.
Le graziose cittadine di provincia sono facili da visitare. Ne
vedi una ed è sufficiente perché rimani sommerso
dall’entusiasmo. Non parliamo delle cantine vinicole.
Interessantissime. Sono in gran parte opera di italiani
emigrati, di greci, di ungheresi che hanno portato i vitigni di
contrabbando dai loro paesi d’origine, sfilandoli sotto il naso
dei severi doganieri troppo impegnati a scoprire salami,
mortadelle e pancette nelle valigie dei cittadini che tornano
dalle vacanze dove si sono abbuffati di leccornie europee o
asiatiche e tentano di perpetuare per un po’ i gusti delle buone
cose assaggiate, prima di ritornare al tran tran culinario
nordamericano.
Pensate che sostengono di aver inventato un vino che si fa nel
ghiaccio polare in pieno inverno (per la verità pare che
l’abbiano creato i tedeschi del nord). Montagne di ghiaccio
naturale sull’uva dalla quale si ricava poi un vinello liquoroso
molto buono e non si sa dove sia finito il ghiaccio che
probabilmente viene sprecato. Ecco perché una bottiglietta te la
vendono a peso d’oro.
Le cascate del Niagara sono lì a due passi. Piange il cuore a
vedere tutta quell’acqua che se ne va, con migliaia di turisti
che la fotografano dopo aver giocato e perso tutti i loro soldi
al rapace casinò sulla collina o essersi persi e fatti spennare
nelle centinaia di negozietti di souvenir. Canadesi ma anche
moltissimi americani che attraversano il ponte di confine per
vedere l’acqua di fronte e non solo di lato come dalla parte
americana. Gente grassa o addirittura obesa, con i jeans bassi
di cavallo, strappati e bucati artisticamente in fabbrica (ogni
strappo cinque dollari di supplemento), con in mano patatine,
pop corn, bicchieroni di Coca Cola.
Una miriade di chiese di tutte le confessioni, tutte con
relativo prete o pastore, spesso con moglie e figli. Qualche
clerico cattolico anche con la morosa. Fiere, banchi di
beneficienza, mercatini di cianfrusaglie con vecchiette
chiacchierine dietro il banchetto. Torte colorate e biscottini
in vendita, dall’incerto sapore. In chiesa tutti cantano, ma
proprio tutti e l’effetto è ottimo.
Quando si lascia il paese viene un po’ il magone. Ti sembra di
lasciarti alle spalle la terra della felicità.
Giacomo Morandi - luglio 2010 |