MARIA CALLAS E LUCIANO PAVAROTTI
DUE VITE PER IL CANTO
di Filippo Vasta (dal cessato sito Noicomit Milano)
Tutti i media hanno ricordato recentemente due artisti scomparsi, che hanno
entrambi eccelso in un’arte che oggi non va certo per la maggiore: la musica
operistica. Luciano Pavarotti ci ha lasciato in settembre e, nello stesso
mese, è stato celebrato il trentennale della morte di Maria Callas.
Entrambi hanno avuto trionfi, durante la loro vita artistica, ed anche
alcune contestazioni. Ma è difficile trovare personaggi così differenti fra
di loro, sia per personalità, sia per l’approccio all’arte che entrambi
hanno espresso al massimo livello.
Maria Callas era una musicista e un’attrice. Cercò sempre di risalire
all’intenzione dell’autore, attraverso il minuzioso esame della scrittura
musicale ed uno studio spesso maniacale di come tradurla in espressione. La
Callas non ha mai cantato una nota fine a sè stessa, ma sempre coerente con
il disegno musicale dell’autore e con quello drammatico, nel quale
dimostrava una capacità interpretativa straordinaria nella sua sobrietà. La
voce, che alcuni ritenevano non bellissima, era uno strumento che aveva
raggiunto, grazie allo studio e all’applicazione infinita, una straordinaria
efficacia, capace di rendere le emozioni e i sentimenti del personaggio
interpretato persino negli abbellimenti e nelle colorature del repertorio
romantico del primo Ottocento, dove, sino ad allora, avevano imperversato
gli usignoli meccanici. Con lei, personaggi come Lucia di Lammermoor o Amina
nella Sonnambula riacquistarono vita, cessando per sempre di essere vuote
esibizioni di belcantismo; dall’oblio di decenni riemersero Anna Bolena,
Medea; la Norma di Bellini venne sottratta alla deriva verista di talune
interpreti dell’anteguerra. La Violetta della Traviata, dopo la celebre
esecuzione degli anni 1955/56 con la regia di Luchino Visconti, è diventata
un precedente imbarazzante, che rende oggi problematica una riproposizione
dignitosa, dato il livello raggiunto in quella celebre edizione.
La Callas, come Caruso, resterà nella storia della musica per la sua
capacità di innovazione. Le sue interpretazioni sono una pietra miliare da
dove devono partire tutte le cantanti venute dopo; in quasi tutti i casi la
documentazione discografica costituisce un insegnamento e un riferimento
imprescindibile.
Per il Lucianone Pavarotti madre natura è stata benigna, fornendogli uno
strumento di impareggiabile bellezza. La facilità di emissione del tenore
modenese trova riscontro solo in alcuni grandi del passato, come Gigli o
Schipa, che però egli superava per estensione e facilità negli acuti.
Pavarotti arrivava senza problemi al Do e al Re bemolle mentre,
paradossalmente, ha avuto qualche incidente su note meno acute come il Si
bemolle (famosa la stecca nel Don Carlo alla Scala). In questo somigliava a
quei saltatori con l’asta che a volte faticano a superare l’asticella più
bassa e si librano poi sulle misure estreme.
Sono probabilmente eccessive certe valutazioni che lo indicano come il più
grande tenore di tutti i tempi. Forse lo sarebbe potuto diventare, ma i
tempi non erano più quelli in cui un artista potesse distaccarsi troppo
dalle esigenze commerciali per affinare e approfondire gli studi. Per essere
comunque fra i grandissimi gli è bastato seguire il suo istinto e il suo
temperamento semplice e generoso. Non studiò mai la musica, imponendosi così
un faticoso apprendimento del repertorio a orecchio, favorito dal dono
dell’intonazione. Certe sue interpretazioni (Bohème, Ballo in maschera) sono
impareggiabili; la predilezione di alcuni sommi direttori d’orchestra, primo
fra tutti von Karajan, sono il sigillo del suo eccelso livello.
Ci mancheranno moltissimo la sua simpatia e la sua comunicativa; per fortuna
continueremo ad ascoltarlo nelle sue numerosissime realizzazioni
discografiche.
Come al solito, le celebrazioni televisive e sulla stampa hanno privilegiato
le vicende personali dei due artisti, a scapito delle testimonianze
musicali. Pensare che entrambi avevano affermato di voler essere ricordati
solo come cantanti d’opera. E’ anche questo un segno dei tempi e dello
scadimento della cultura e, soprattutto, del gusto. Così va il mondo.
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Piazza Scala - agosto 2010