La cacciata in Canada (Peele Island) del 1984

Cliccate sulla foto sottostante per ingrandirla (Giacomo è il terzo da sinistra)

 

 

Ero in Canada da qualche anno, proveniente dalla Filiale di New York della banca. Ero stato molto preso dal lavoro e non avevo mai trovato il tempo per organizzarmi qualche battuta di caccia, la mia grande passione fin da bambino, trasmessami da mio padre che mi aveva comprato una carabina calibro 9, addestrandomi ad usarla con grande rispetto fin dall’età di 8 anni. 

L’unica vera gran cacciata, in Canada, la feci nel 1984, in ottobre. Alcuni  clienti di origine italiana, quasi tutti calabresi, mi proposero di aggregarmi a loro per una caccia al fagiano e alla pernice su un’isola nel mezzo del  Lago Erie, uno dei grandi laghi del Nord America. L’isola, lunga una decina di chilometri e larga tre, era abitata da una cinquantina di famiglie di agricoltori i quali, per finanziare la scuola ed altri servizi pubblici, organizzavano una volta all’anno la caccia al fagiano e alla pernice che durava solamente quattro o cinque giorni. 

La nostra squadra era composta di undici persone, di cui nove cacciatori e due semplici turisti o accompagnatori. Un certo Sam Lettieri, proprietario di un caseificio/salumificio, organizzò la spedizione attraverso un suo agente della zona di Windsor. Prese in affitto una casetta rurale sull’isola ed ottenne i necessari permessi. Partimmo in macchina da Toronto e viaggiammo per circa quattro ore sull’autostrada per Windsor, una città industriale sulla riva del grande lago Erie, di fronte alla città americana di Detroit.

Lasciammo le automobili in un parcheggio vicino al lago nei pressi di una cittadina chiamata Leemington e ci imbarcammo su una nave traghetto che impiegò due ore e mezzo per effettuare la traversata. Sull’isola, chiamata Peele Island, ci attendeva un furgone che ci trasportò alla casa. Eravamo noi undici, sei cani, fucili, munizioni e una quantità indescrivibile di provviste: salumi, formaggi, polli arrosto, sacchi di patatine fritte, salsicce, scatolame, pane, biscotti  e una damigiana di vino rosso fatto in casa.

Dormimmo tutti e undici, si fa per dire, in due stanze su letti di fortuna, senza lenzuola ma ben coperti, perchè fuori la temperatura era sotto lo zero. Ci alzammo prima dell’alba e dopo un’abbondante colazione ci avviammo per i boschi. A mezzogiorno avevamo già incarnierato una cinquantina di fagiani e qualche pernice.. Nel pomeriggio ne raccogliemmo un’altra ventina ed oltre cinquanta la mattina dopo. La sera ci abbuffammo delle provviste portate da Toronto, assaggiando anche il cibo rigidamente canadese che aveva preparato la famiglia che ci ospitava, più che altro per non offenderla. 

Gli abitanti dell’isola, poche centinaia, vivevano di agricoltura ed erano in gran parte giovani. Giovani coppie che avevano deciso di ritirarsi lontano dalla civiltà urbana e vivere dei proventi della terra. Molti erano laureati. Il clima, in quella plaga isolata e piatta in mezzo ad un enorme lago che sembrava il mare, era proibitivo. Caldissimo in estate e gelido e ventoso per sette od otto mesi. Non avevano telefono ed erano collegati con la terra ferma tramite una vecchia radio ricetrasmittente, situata nell’ufficio postale dove una sola impiegata svolgeva molti compiti pubblici, compreso quello di ostetrica. Suo marito faceva il poliziotto, il postino, il becchino, il messo comunale e chissà cos’altro. Un medico arrivava due volte alla settimana con il traghetto di Leemington, visitava e se ne ritornava sul continente in giornata. I malati gravi venivano prelevati da un elicottero. Era una vita tranquilla, primitiva ma gli abitanti dimostravano di passarsela bene, molto meglio di tanti agricoltori del resto del Canada. 

Il terzo giorno, al mattino, dovevamo ripartire, ma ci comunicarono che le condizioni del lago, per il fortissimo vento e per le onde alte fino a quattro metri, non permettevano al traghetto di viaggiare. Ci dissero anche che tali condizioni sarebbero durate almeno tre o quattro giorni e in quei posti difficilmente le previsioni sbagliano. Che fare? Io dovevo assolutamente ritornare a Toronto. Avevo appuntamenti, scadenze, cose assolutamente improcrastinabili da fare. Due dei miei compagni avevano problemi simili. Uno di loro,  l’industriale caseario che aveva per qualche giorno lasciato l’azienda in mano ai due figli, non era tranquillo. Qualcuno ci propose di chiamare un piccolo aereo dall’aeroporto di Windsor. Via radio, dopo qualche tentativo infruttuoso, riuscimmo a convincere un pilota ad affrontare il tempo cattivo ed il vento e nel primo pomeriggio ci portammo al campo erboso che fungeva da aeroporto di fortuna. Verso le 15 spuntò dalle nuvole un aeroplanino che sembrava un aliante. Fallì l’atterraggio due volte a causa del vento, poi finalmente riuscì a posare le ruote a terra. Noi ci guardammo in faccia preoccupati non tanto per la manovra quanto per l’età del pilota. Era uno sbarbatello di venti o ventidue anni, biondo platino, alto e allampanato. Saltò a terra giulivo e ci salutò. Alle nostre domande rispondeva soltanto “No problem, no problem” Caricammo valigie, sacchi, fucili, cani e una quarantina di fagiani e salimmo sull’aereo giocattolo, noi tre e il pilota. Il decollo fu un po’ avventuroso ma ci ritrovammo in aria in un baleno. L’aereo volava basso per evitare le nubi ma il vento era talmente forte che il velivolo faceva salti in alto e in basso, a destra e a sinistra. Lettieri ed io ci guardavamo ostentando impassibilità e buon umore mentre il nostro compagno era verde come l’erbetta di primavera. L’atterraggio a Windsor, mezz’ora dopo, fu un’esperienza veramente da non dimenticare. Il vento soffiava nella direzione della pista. Il nostro pilota decise, dopo due tentativi falliti (nel primo le ruote dell’aereo toccarono il suolo con un balzo), di buttarsi sulla pista di lato e poi, all’ultimo secondo, di sterzare a novanta gradi. La manovra riuscì ma la fifa fu molto grande. 

Un taxi ci portò a Leemington dove c’erano le nostre macchine parcheggiate e ripartimmo per Toronto. Nevicava e l’autostrada era quasi impercorribile. Folate di vento laterali investivano la grossa automobile che pattinava sulla coltre ghiacciata e la neve di traverso impediva la visuale. Impiegammo un paio d’ore in più. All’arrivo a casa, mia moglie mi guardò con freddezza perchè per tre giorni non aveva avuto mie notizie e non sapeva neppure dove fossi andato a finire. Ricordo quell’avventura fra i fatti più interessanti della mia vita, anche se devo confessare di essere, ora, un ex cacciatore un po’ pentito (ma deve essere l’età).

 

Giacomo Morandi

 

 

 

 

 

 

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Piazza Scala - settembre 2012