L’intervento di Romolo Bonomini del 16 settembre dal titolo “La Resistenza non poteva aspettare” sulle pagine di Libertà riservate alle opinioni e alle analisi dei collaboratori esterni più o meno assidui, sempre molto interessanti, ci parla, con parole commoventi, come è sua abitudine, del ruolo delle mamme dei giovani e giovanissimi partigiani che dal settembre 1943 all’aprile 1945, risposero alla chiamata, non di un bando o di una cartolina precetto ma della loro coscienza, di un dovere che sentirono impellente, quello di resistere al sopruso nazista che asserviva la nostra nazione, affiancato dai superstiti di quel regime fascista che aveva in un ventennio instaurato una dittatura e, senza interpellare gli italiani, ci aveva portato all’alleanza con il mostruoso regime nazista e alla guerra di aggressione contro altri popoli, senza, peraltro, adeguata preparazione.
Le madri videro i loro ragazzi, molti nemmeno ventenni, alcuni diciassettenni, preparare un misero fagotto con i pochi indumenti che gli anni di guerra avevano risparmiato, un paio di scarpe malandate. Partivano lasciando le madri in angoscia per un’ignota avventura, a piedi, da soli o più spesso in piccoli gruppi, con le idee ancora confuse dalla propaganda scolastica che i quaranta giorni badogliani non avevano contribuito molto a chiarire, consci tuttavia di una verità. Basta con la guerra a fianco dei nazisti, basta con la dittatura fascista, qualcosa di nuovo emergerà dalla lotta che cominciavano a chiamare Resistenza, per il momento ribellismo e dalla propaganda avversaria si sentivano chiamare banditi.
Le madri passarono mesi e mesi senza notizie dei loro ragazzi, qualcuna, più fortunata, ne riceveva una fugace visita notturna e il ragazzo ritornava in montagna con qualche maglia in più, qualche amorevole raccomandazione in più, spesso inascoltate.
Quando passavano sulla statale i camion con i rastrellatori tedeschi e fascisti e si sentivano i colpi dei mortai e il crepitare delle mitragliatrici, le madri s’inginocchiavano a pregare. I ragazzi erano in pericolo, costretti ad uccidere per non essere uccisi. Durante il grande rastrellamento invernale del 1944-45 l’angoscia delle madri per la sorte dei loro figli dispersi sui monti, braccati, forse catturati, forse uccisi, divenne spasmodica. Purtroppo, piano piano, le tragiche notizie arrivavano nelle famiglie e le gettavano nello sconforto.
Si notavano, tuttavia, la serenità e la calma di alcune di loro. Avevano saputo che i loro figli erano sopravvissuti ed erano nascosti, soli o a piccoli gruppi, in attesa di riprendere la lotta oppure erano riuscite a raggiungerli, a confortarli, a rifocillarli con qualcosa da casa..
Non posso dimenticare l’atteggiamento di mia madre in quei tristi mesi. Mio padre, allora sessantacinquenne, ed io ci eravamo allontanati da casa e andavamo girovagando fra i monti in cerca di un rifugio o di un’ospitalità,
Mia madre non seppe nulla di noi per più di due mesi, dopo aver seguito le nostre tracce in Val Trebbia e Val Luretta, poi riuscì a sapere dove eravamo, ci raggiunse dopo una marcia di ore e ci portò indumenti e generi di conforto. Poi io ritornai a casa una prima volta, quando i partigiani occuparono Rivergaro, raggiunto dopo un paio di settimane da mio padre, ma non era finita. Dopo qualche giorno iniziò il rastrellamento di fine novembre 1944 e riprendemmo la via dei monti, verso la Val Nure, e a Bettola ci separammo. Io ritornai da mia madre e mio padre seguì un gruppo fino alle montagne del parmense, dove rimase praticamente fino alla Liberazione.
Mia madre si fece carico dell’andamento della famiglia, con me e due sorelle più piccole, fra mille difficoltà e mille privazioni. Non potevamo permetterci il mercato nero e le poche dotazioni della tessera annonaria arrivavano solo saltuariamente a Rivergaro. Faceva salti mortali per sfamarci, a forza di verze, barbabietole e patate. Un giorno ci portò perfino a “spigolare” nei campi di grano dopo il raccolto. Se si dimostrava di aver “spigolato”, si aveva diritto ad un sacco di farina che si ritirava legalmente dal mugnaio. Di tanto in tanto si recava a Piacenza in bicicletta e riusciva perfino a riscuotere parzialmente l’affitto da un recalcitrante inquilino, un capitano della Guardia Repubblicana, per una casa che ci era stata requisita, e a ritirare un po’ di soldi da un libretto bancario. Il viaggio era pericoloso a causa dei continui mitragliamenti di aerei alleati.
Non voleva che l’accompagnassi per timore che potessero catturarmi e tenermi come ostaggio. Anche a Rivergaro non voleva che mi facessi vedere in giro, ma io spesso non l’ascoltavo. Ritornava anche con qualche provvista supplementare, con due grosse borse sulla bicicletta, un po’ sgangherata e con le toppe sulle gomme.
Di lei ricordo anche con commozione quando affrontò con il sorriso sulle labbra una squadra della Brigata Nera venuta per arrestare mio padre, negando la nostra presenza in casa. Sotto l’apparenza bonaria era una donna molto forte.
Sono d’accordo con l’amico Bonomini: non si è quasi mai parlato del ruolo che queste madri e mogli ebbero in quel periodo a supporto, morale e materiale, dei loro uomini e rischiarono molto in prima persona.

Giacomo Morandi
 

 

 

 

 

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Piazza Scala - ottobre 2011