Da ex bancario in pensione ormai da molti anni vorrei azzardare qualche osservazione sul progetto del governo, di cui si parla in questi giorni, riguardante l'obbligo per le maggiori banche popolari di trasformarsi da società cooperative in vere  e proprie società per azioni. L'obbligo, a quanto pare, riguarderà soltanto le dieci più importanti aziende del settore, con un attivo di bilancio superiore a 8 miliardi di Euro. Cito le principali,  cioè la Popolare di Milano, il Banco Popolare, l'UBI Banca, la Popolare dell'Emilia, la Popolare di Vicenza,  tutte attualmente società  a carattere cooperativo. Alcune delle banche del settore sono state o sono ancora oggetto di indagini da parte della magistratura per sospetti reati societari.

Come noto, le banche cooperative hanno un azionariato molto diffuso, composto spesso da migliaia di piccoli soci i quali dispongono di un voto capitario, cioè hanno diritto a un solo voto, indipendentemente dal numero di azioni o quote possedute, quindi, almeno in teoria, nessun socio e praticamente nessuna coalizione o patto di sindacato può ottenere il controllo della banca.

La realtà è però spesso un po' diversa. Dato l'estremo frazionamento dell'azionariato o comunque della compagine sociale, (i soci delle banche cooperative sono attualmente circa 1,3 milioni) alle assemblee partecipa sempre una  minoranza, mentre la maggioranza dei soci si astiene o conferisce delega ad altri soci. Il management ha quindi un potere enorme, insieme a pochi gruppi di esponenti amici, in grado di indirizzare masse di soci o comunque raccogliere le deleghe. I notabili locali hanno buon gioco a nominare la dirigenza e quest'ultima a perpetuare se stessa anche cooptando nei Consigli d'Amministrazione e spesso nella dirigenza stessa gli amici degli amici.

Questo è il principale motivo che ha indotto il governo, dopo molti anni di discussioni e anche di pressioni  dell'Unione Europea e del mercato, a studiare ed eventualmente attuare tale provvedimento, unitamente al fatto, più importante ancora, di favorire la contendibilità di dette banche sul mercato, cioè di consentire fusioni fra istituti o acquisizioni, praticamente molto difficili, se non impossibili, nelle banche cooperative. Del resto ciò è vero anche nelle società per azioni quotate ad azionariato molto diffuso quando non c'è o non è possibile un patto di sindacato di controllo ed è praticamente soltanto il management a comandare. In questo caso, quando i soci sono decine di migliaia e non si organizzano come hanno fatto i soci/dipendenti della Banca Popolare di Milano, è molto facile pilotare le assemblee.  

Opportunamente, il progetto del governo Renzi non prevede lo stesso obbligo (di trasformazione in società per azioni ed abolizione del voto capitario) per le banche cooperative di minore grandezza, anche se vale anche per loro, in linea di massima, il timore concreto di influenze o di patti associativi poco trasparenti fra i vari potentati locali, inclusi quelli della politica. Le stesse, tuttavia,  hanno un ruolo molto importante nelle economie dei limitati territori che sono chiamate a servire ed hanno giustamente forti legami con gli ambienti industriali, commerciali, artigiani locali.  E' il caso della nostra Banca di Piacenza, una banca cooperativa storica, ben introdotta nella nostra provincia e non solo. Sarebbe un peccato se la stessa fosse assorbita da qualche colosso nazionale o internazionale come è successo anni fa, a tappe successive, per la Cassa di Risparmio, la quale, peraltro, per convenienza dello stesso Credit Agricole, grande banca francese capillarmente radicata nella provincia profonda del suo paese,  che a suo tempo la comprò,  ha potuto mantenere i tradizionali legami con il territorio delle due province, Parma e Piacenza, in cui principalmente opera.

 

Giacomo Morandi (Rivergaro)

 

 

 

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Piazza Scala - marzo 2015