UN RICORDO DOPO SETTANT'ANNI    

 

di GIACOMO MORANDI

 

Un episodio, fra gli altri, di quell'estate tribolata del 1944, esattamente settant'anni fa di questi giorni, mi è rimasto impresso nella mente quasi in tutti i particolari e cercherò di raccontarlo.
Dall'anno prima ero sfollato con la mia famiglia a Diara di Rivergaro, dove occupavamo una casetta sistemata in modo molto precario per l'utilizzo estivo, ma diventata residenza permanente dopo l'inizio dei bombardamenti aerei su Piacenza. In una casa adiacente abitavano anche le famiglie degli zii e cugini Rosa e Perletti.
Una mattina di fine giugno, mentre io mi trovavo in paese a Rivergaro, arrivarono a casa nostra due macchine con otto uomini della polizia politica, l'U. P. I., comandati dal Capitano Zanoni, allora capo dell'Ufficio, chiesero di mio zio Gaetano Perletti e s'imbatterono anche in mio padre, Carlo, che in quel momento si trovava in giardino con un libro in mano.
I miei dopo mi raccontarono che Zanoni e un paio d'altri poliziotti si chiusero nello studio con mio zio e mio padre e restarono lì per quasi un'ora di interrogatori. Avevano portato con loro un ragazzotto figlio di contadini delle vicinanze il quale, sembra, aveva indicato mio zio come destinatario di un biglietto compromettente intercettato dalla polizia politica.
Alla fine, mio padre e mio zio furono caricati, così com'erano, su una delle macchine che partirono in direzione di Piacenza, senza ulteriori spiegazioni. Mio padre aveva sessantaquattro anni e mio zio alcuni di meno.
Si può immaginare lo sconcerto e l'allarme nelle nostre due famiglie. Al mio ritorno dal paese trovai mia madre e mia zia Pina, sorella minore di mio padre, in lacrime. In particolare mia madre temeva fortemente le conseguenze dell'arresto che da tempo temeva, viste le idee "sovversive" di mio padre, da molti anni sorvegliato dalla polizia. Non era chiaro invece l'arresto di mio zio, non fascista ma iscritto al partito per motivi di lavoro (era Direttore dell'Ufficio Imposte di Consumo del Comune di Piacenza). Mia zia era in angustie anche per la mancanza di notizie sul figlio maggiore, allievo all'Accademia Navale di Livorno, imbarcato su una nave della Marina che aveva lasciato Venezia il 9 settembre ottemperando agli ordini di Supermarina. Ci aspettavamo comunque che i nostri cari ritornassero a casa la stessa sera, ma ciò non avvenne.
La mattina dopo, di buon'ora, mia madre e mia zia si fecero portare a Grazzano Visconti per prendere il tram elettrico per Piacenza (la corriera di Rivergaro era stata soppressa) e corsero alla sede dell'Ufficio Politico per informarsi e cercar di incontrare i due arrestati. Seppero che gli interrogatori erano in corso e sarebbero durati sicuramente per tutto il giorno. L'accusa era, per mio zio, di corrispondenza con i partigiani e, per mio padre, arrestato perchè trovato sul posto e sulla lista di Zanoni come oppositore del Regime, di appartenenza al Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), accusa non vera, anche se in effetti aveva contatti e amicizie nell'ambiente e alle autorità fasciste era noto e schedato, da anni, come antifascista.
Nel pomeriggio Zanoni e alcuni suoi uomini si recarono con mio padre alla nostra casa di Piacenza in via Garibaldi per una perquisizione che durò fino a sera. Furono trovate soltanto un paio di vecchie copie di giornali francesi di prima della guerra, alcuni libri e un mio diario di un paio d'anni prima che fece sobbalzare chi lo trovò perchè parlava di fantomatiche società segrete costituite fra noi ragazzi per gioco, e mio padre non ebbe difficoltà a spiegarle.
Purtroppo i due arrestati, verso sera, furono portati in carcere dove si ritrovarono in una cella fetida, con bugliolo puzzolente in un angolo, in lieta compagnia (si fa per dire) di due ladri incalliti. Il carcere piacentino, che allora molti chiamavano "Cà Tondi", ancora ubicato di fronte al Tribunale, era un edificio fatiscente, con celle anguste e umide, anche allora sovraffollato.
Mia zia conosceva molta gente, anche nelle istituzioni pubbliche fasciste, nell'ambiente industriale e nello stesso carcere e si diede subito da fare con questo e con quello. Venne a conoscenza del fatto che l'arresto di mio zio era stato provocato da quel ragazzino che accompagnava le due squadre di poliziotti che lo aveva indicato come "il conte" destinatario di un biglietto politicamente compromettente, scambiandolo per un altro nobile della nostra zona (mio zio Perletti era effettivamente conte). Inoltre, la località in cui abitavamo era chiamata in dialetto "Gerra" che significa "ghiaia", ed era stata confusa con un'altra località che si chiama "Gerolo", di significato simile, nello stesso Comune.
Passarono alcuni giorni con poche notizie dei due reclusi, ottenute da mia zia tramite il cappellano del carcere e un agente carcerario di sua conoscenza e riuscì a far consegnare loro un pacchetto con generi di conforto. La situazione era pericolosa perchè ogni giorno c'erano prelevamenti dal carcere di reclusi politici da inviare in Germania e si disse che avvenissero anche fucilazioni e torture, soprattutto la notte e si sentivano urla e trambusti..
La situazione non cambiò per diversi gjorni, finché una mattina della settimana successiva mia zia che scendeva in città con mia madre ogni giorno, vide da lontano i due uomini arrivare da via Solferino (ora via Santa Franca) arrancando con i loro fagotti sulle spalle. Erano stati rilasciati senza alcuna spiegazione mezz'ora prima, non si sa per intervento di chi. O forse mia zia lo seppe ma non ci disse nulla.
Mio zio riprese flemmaticamente il suo lavoro, per qualche mese, compatibilmente con la precarietà delle comunicazioni fra Rivergaro e Piacenza, mentre mio padre si guardò bene, da lì in poi, dal recarsi in città. Rivergaro era già in zona soggetta a incursioni partigiane e non aveva più un presidio fascista ma si stava sempre in allarme per eventuali puntate avversarie.
Infatti, trascorsa una ventina di giorni, una mattina presto arrivò una squadra della Guardia Nazionale Repubblicana che circondò la nostra casa chiedendo di mio padre. L'ufficiale che la comandava aveva una lista di persone da catturare nel paese. Per fortuna, una signora nostra vicina di casa era corsa ad avvisarci dell'arrivo della squadra che chiedeva in giro di mio padre e lui ed io riuscimmo a nasconderci in un vecchio magazzino inagibile adiacente e nella successiva perquisizione non ci trovarono.
Quello stesso pomeriggio raccogliemmo poche cose, attraversammo il fiume Trebbia a guado e così cominciò il nostro peregrinare sulle montagne per alcuni mesi, fra un rastrellamento e l'altro. Ma questa è un'altra storia.

29/06/2014
 


 

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Piazza Scala - giugno 2014