L’amico
Romolo Bonomini su “Libertà” del 7 settembre scorso rievoca quella funesta
data storica, alla quale era presente, ragazzo ormai quasi in età di
arruolamento, testimone dell’improvviso sfacelo delle nostre forze armate,
paragonandolo a quello, molto meno grave, della disfatta di Caporetto del
1917. Molto meno grave perché riscattato poi dalla resistenza sul Piave e
dalla rivincita di Vittorio Veneto.
Io avevo qualche anno in meno ma ricordo quei giorni con immutato senso di
tristezza e mi sorprendo spesso a pensare a ciò che sarebbe potuto avvenire
nel nostro paese se i governanti fossero stati all’altezza della situazione,
se il capo dello stato di allora, il re Vittorio Emanuele III, il governo
presieduto da Badoglio, i capi militari cresciuti all’ombra e con le
prebende del fascismo, fossero stati meno imbelli, meno attenti alle
carriere e alla loro salvezza personale.
Quella sera ascoltai con mio padre il messaggio del maresciallo Badoglio
alla radio, nel quale annunciava, con parole equivoche e sibilline,
l’armistizio firmato qualche giorno prima con gli alleati anglo-americani
che avevano già occupato l’intera Sicilia e si accingevano a passare sul
continente.
L’annuncio era atteso, il popolo sapeva e sperava, da quarantacinque giorni
dopo la caduta del fascismo, che in un modo o nell’altro si mettesse fine a
quella guerra insensata a fianco della Germania nazista, evidentemente ormai
persa, con il paese ridotto alla fame (150 grammi di pane al giorno, poi
ridotto a 100 grammi, niente zucchero, burro, carne, caffè e di tutti i
generi di prima necessità) soggetto a bombardamenti aerei di giorno e di
notte.
Tutti eravamo certi che il governo, nei lunghi giorni che precedettero
l’annuncio, avesse preparato l’evento soprattutto allertando le forze
armate, concentrandole, richiamando le unità sparse in Francia, in
Jugoslavia, in Grecia, in Albania. Era evidente a tutti che i nazisti non
avrebbero accolto con rassegnazione il “tradimento” dell’alleato fascista.
Infatti, contro una modesta presenza a fine luglio, i tedeschi utilizzarono
tutto il mese di agosto durante il quale il nostro governo dichiarava che
“la guerra continuava”, per inviare ingenti rinforzi, nuove divisioni
corazzate dislocandole strategicamente nei punti chiave del paese, mentre i
nostri capi si trastullavano nel risibile tentativo di nascondere
l’intenzione di porre fine al conflitto, senza predisporre piani, senza
impartire ordini, iniziando e sospendendo trattative con gli alleati,
illudendosi di ottenere chissà cosa, giocando sugli equivoci.
Mi sorprendo a immaginare che il re e il governo, approfittando della debole
presenza tedesca sul nostro territorio, della superiorità schiacciante delle
nostre forze armate, dell’appoggio della maggioranza degli italiani, avesse
immediatamente, entro pochi giorni, concentrato le forze per salvare
dall’occupazione tedesca almeno buona parte dell’Italia, come gli stessi
tedeschi avevano previsto, e per fare scudo intorno alle istituzioni,
com’era assolutamente possibile, solo se i necessari ordini fossero stati
diramati.
Nei quarantacinque giorni, come già detto, il governo non fece nulla e fino
all’ultimo giorno i comandi periferici, in Italia e, peggio ancora,
all’estero, restarono all’oscuro di quanto si stava preparando. Alcune
unità, oltretutto, furono sorprese in via di trasferimento e furono
naturalmente sopraffatte dalla capillare e precisa organizzazione tedesca.
Perfino a Roma, dove pure erano dislocate unità motocorazzate di élite e
dove era stato inizialmente proposto dagli alleati l’invio di unità di
paracadutisti per affiancare le nostre forze, non fu presa nessuna
decisione.
Perfino il duce, tenuto prigioniero in un albergo sul Gran Sasso, fu
abbandonato e i carabinieri che lo custodivano non ricevettero ordini, tanto
che non si opposero quando i tedeschi, con un’azione di forza, andarono a
liberarlo per metterlo a capo di un governo fantoccio e di una fantomatica
repubblica che ritirò dai cassetti le tristi camicie nere.
Mi sorprendo a pensare che il re Vittorio Emanuele e suo figlio Umberto, il
capo del governo e i tanti capi militari che organizzarono, questa si con
efficienza, la fuga a Pescara, fossero rimasti a Roma a capo dei loro
soldati, animandoli nella resistenza all’invasore tedesco.
Purtroppo la storia è andata in modo diverso e ha ragione Bonomini, fu
un’onta per il nostro paese che fa ancora male ai cuori di noi anziani.
Giacomo Morandi
settembre 2013
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