pubblicato sul quotidiano LIBERTA' di Piacenza il 25 aprile 2012 

 

Il 25 aprile 1945, sessantasette anni fa, ero un ragazzo non ancora in età per impugnare un’arma da guerra, anche se sapevo già maneggiare fucili da caccia e carabine che mio padre, gran cacciatore, mi aveva insegnato ad usare con rispetto e grande prudenza.

A quell’età la passione e gli ideali sono forti, o almeno lo erano a quei tempi. Io, come molti ragazzi, desideravo far qualcosa di eroico, arruolarmi nella Resistenza, svolgere magari qualche compito umile e dare una mano. Nei mesi precedenti ero riuscito in parte a rendermi utile frequentando un distaccamento partigiano, al seguito di mio padre fuggiasco sulle nostre montagne, ma quando lui fu costretto, nel dicembre 1944 in pieno rastrellamento invernale,  a rifugiarsi con altri sui monti del parmense, io dovetti ritornare a casa, in quel di Rivergaro, attraversando di notte le colline e i boschi fra Bettola e la Val Trebbia, già pattugliate dai soldati della Divisione  Turkestan.

Il 16 aprile del 1945, a poco più di una settimana dalla Liberazione, un estremo colpo di coda delle milizie fasciste e dei tedeschi che occupavano la bassa valle del Trebbia era fallito a Monticello e la grave sconfitta aveva contribuito ad abbassare ulteriormente il morale dei nemici, già a terra a causa delle disfatte militari su tutti i fronti e della crescente pressione delle brigate partigiane.

La mattina del 25 aprile, molto presto, appostato dietro a un muretto del giardino, vidi passare la colonna che si ritirava verso Piacenza, in parte a piedi, in parte su alcuni autocarri e carriaggi trainati da cavalli e un piccolo carro armato sulla provinciale per Gossolengo che viaggiava lentamente a retromarcia, con il cannoncino puntato verso il paese.

Quando l’ultimo carro scomparve sulla strada statale, uscii dal giardino ma proprio in quel momento alcuni cacciabombardieri piombarono a bassa quota mitragliando la strada. Mi buttai nel fosso laterale e vidi distintamente i piloti a non più di cinquanta metri. Facevano parte dell’armata che doveva liberarmi, pensai, ma nel frattempo mitragliavano anche me..

Restai acquattato per non so quanto tempo e quando tutto fu calmo mi rialzai e corsi a prendere la mia bicicletta. Non avevo provato paura. L’incoscienza giovanile aveva avuto il sopravvento e continuava ad averlo perché subito pedalai di buona lena in direzione di Piacenza. Poco dopo l’abitato di Diara, di fronte ad Ancarano, giacevano sulla strada alcuni cavalli morti, un camion  finiva di bruciare e molti rottami erano sparsi fra la strada e i campi intorno.

Continuai a pedalare in direzione della città, ma quando raggiunsi la casa cantoniera di Ponte Vangaro vidi un grosso carro armato americano con il cannone puntato verso Rivergaro, due o tre soldati seduti vicino alla torretta e un paio di partigiani con fucili mitragliatori. Mi dissero che si temeva il ripiegamento dell’armata tedesca della Liguria attraverso la Valle del Trebbia e mi ingiunsero di ritornare a casa. Piacenza, infatti, era ancora in mani nemiche e sarebbe stata liberata dalle brigate partigiane solo due giorni dopo.

Rivergaro era in festa, ignara dell’ulteriore pericolo incombente. Le campane delle chiese suonavano in tutta la valle, la gente si abbracciava. Gruppi di partigiani bene armati, molti in divisa,  alcuni con barbe e capelli lunghi, un po’ smargiassi, si erano radunati sulla piazza principale del paese in attesa di partire per Piacenza, dove li attendeva l’ultima battaglia che nei due giorni successivi avrebbe provocato altre vittime fra di loro.

Anch’io avevo azionato a lungo la campanella sul tetto della casa e fui redarguito da una zia che temeva ancora il ritorno dei tedeschi.

E’ passata una vita da allora. La festa della Liberazione è ancora molto sentita dai più. Rappresenta non solo la cacciata dei nazisti e la fine del Fascismo e della dittatura, ma anche l’alba di un’Italia nuova, diversa profondamente anche dall’Italia monarchica ed elitaria sorta dal Risorgimento, più simile alle nazioni democratiche, liberali e liberalsocialiste del mondo occidentale. Eppure, non tutti gli sconfitti di allora o i loro discepoli si sono del tutto rassegnati. Alcuni, pervicaci nelle loro nostalgie di quel mondo di soprusi, di violenza, di intolleranza, favoriti dall’accesso al governo nazionale o a un certo numero di amministrazioni ed enti locali di personaggi estranei alle radici della nostra Repubblica, si spingono, attraverso critiche alla Resistenza, a revisioni inaccettabili della storia, un fenomeno raro negli altri paesi che hanno sofferto il giogo nazista, dove la Resistenza è patrimonio di tutti, destra, sinistra e centro.

Revisionisti alla Pansa raccontano delle vendette sommarie di quei giorni da parte di gruppi semiclandestini in alcune zone d’Italia, omettendo accuratamente di inserirle nel contesto rivoluzionario di quei momenti, della violenza e delle persecuzioni dei 20 mesi precedenti,  attribuendole al movimento intero, evitando di menzionare le tragedie della  caccia all’uomo durante l’inverno appena trascorso. Revisionisti disinvolti alla Petacco che attribuisce al Duce la qualifica di “buono” ignorando le migliaia di sue vittime in Africa, in Grecia, in Yugoslavia, i perseguitati in Italia, alla De Felice che teorizza il cosiddetto “consenso” degli italiani, trascurando il fatto che il consenso è un po’ difficile da misurare in una dittatura di polizia come era quella fascista e altri che si sono inseriti nel clima politico di questi ultimi anni, non possono che avere vita breve, anche se vendono bene i loro scritti, e sono smentiti, se non ridicolizzati, dalla storiografia scientifica che varca le frontiere.

Per fortuna, dopo la graduale ma ormai quasi completa scomparsa della generazione di combattenti della Resistenza, il testimone è ora ripreso da molti giovani che fanno propri quegli ideali che hanno consentito al nostro Paese di rientrare nel consesso delle nazioni civili. Purtroppo, non tutte le speranze di allora si sono realizzate. Non tutti i grandi principi della nostra Costituzione sono rispettati, non tutti gli uomini che sono venuti dopo  la grande stagione della ricostruzione morale e materiale del nostro paese si sono rivelati degni, ma le radici sono rimaste.

 

Giacomo Morandi

 

 

 

 

 

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