un simpatico "amarcord" del collega Claudio Santoro (Lecco)
Credersi un campione a sedici anni, nelle pause dei
compiti a casa, giocando con i pantaloni lunghi e le scarpe “buone”
nel cortile ci sta tutto. Mentre si palleggiava con il “River Plate”
ci immaginavamo fraseggi e tocchi delicati, azioni travolgenti che
annichilivano l’avversario, reti strepitose e pubblico che ululava
dalla gioia nel vedere simili delizie, magari scandendo il tuo nome.
Nella realtà si stava attenti a non far rimbalzare troppo la palla e
ad evitare di spaccare il vetro di una finestra che avrebbe
comportato l’ira strepitante di qualche signora, oppure qualche tiro
alto con la sfera che sarebbe rimasta imprigionata sopra
un’inaccessibile terrazza.
Ma il sogno rimaneva quello di possedere una vera e propria divisa
da calciatore (la famosa muta), costituita da maglia, possibilmente
di colori sgargianti, pantaloncini (a quei tempi piuttosto corti in
modo da evidenziare il quadricipite tonico) e i calzettoni, quelli
incompleti con la striscia che attraversava la pianta inferiore del
piede. Avere una divisa era un requisito indispensabile per
iscriversi al Campionato.
Di quelle poche che avevamo maneggiato ne serbavamo un ricordo
struggente, dato che, a fine partita, ci erano state bruscamente
sottratte da un cerbero dirigente che, dopo averle ammonticchiate
ancora fumanti di sudore, sul pavimento dello spogliatoio, le aveva
attentamente contate allo scopo di evitare che qualche capo
sparisse.
Quindi il nostro obbiettivo era quello di trovare una persona (a
distanza di anni si sarebbe chiamata“sponsor”) che ci potesse
fornire una muta completa per la nostra squadra. Ai nostri genitori
avevamo già chiesto lo sforzo finanziario di acquistarci gli
scarpini e di più non si poteva.
Non è che eravamo tutti come Peppuccio, il figlio del”catanese”, che
questo materiale lo vendeva e che, di conseguenza, forniva di tutto
punto suo figlio. Indimenticabile la sua divisa del Milan: maglia
rossonera, calzoncini bianchi, calzettoni neri bordati di rosso e,
incredibile a dirsi, un paio di autentiche Pantofola d’Oro ai piedi.
In occasione di stop fasulli o tocchi di palla sbroccati, si dava la
colpa alle scarpe e si attribuivano sempre ad esse i tocchi
vellutati o i lanci millimetrici che Peppuccio sapeva eseguire.
Ma insomma, occorreva qualcuno che ci desse una mano ad ottenere
questa divisa e che consentisse alla squadra di iscriversi al
Campionato.
Era l’aprile 1968 e i primi tepori primaverili invadevano l’aria.
All’imbrunire il cielo era graffiato dalla moltitudine di rondini
che sfrecciavano, lanciando suoni sottili e stridenti. Avvertivamo
un certo movimento in piazza; si formavano capannelli di persone,
grumi di discussioni accese con qualche scoppio di urla.
Era tempo di campagna elettorale.
Ancora adesso non ricordo chi fu che creò l’aggancio, forse Turi
che, pur non essendo particolarmente dotato sotto il profilo
calcistico, aveva un talento innato nell’intrecciare relazioni e nel
conoscere nuove persone, anche adulte, nonostante i suoi e i nostri
sedici anni.
Si trattava del Commendatore T., una persona alquanto bizzarra che
si era abituati spesso a vedere attraversare la piazza, con il suo
incedere aristocratico, vestito di tutto punto: cappello, bastone da
passeggio e guanti, di cui uno calzato e l’altro voluttuosamente
lasciato penzolare nell’altra mano. Tutto era lenta eleganza nei
suoi movimenti e, anche quando tornava semplicemente dal fare la
spesa; una cipolla tenuta in mano sembrava una coppa di prelibato
champagne da sorseggiare. Il Commendatore era noto in paese per la
sua elevata istruzione, la sua oratoria veemente e ipnotica e per la
sua distrazione. Famosa era stata la sua orazione funebre, ricca di
pathos ed emozione che descriveva le vicende terrene di un onesto
padre di famiglia, lavoratore indefesso, educatore attento e marito
fedele. Il problema era che aveva sbagliato funerale
e che si trattava di una defunta. Ma il suo discorso era stato
talmente bello che i parenti della scomparsa, dopo averlo
attentamente ascoltato e senza osare interromperlo, l’avevano
congedato con un “Grazie lo stesso, grazie, caro Commendatore”.
Ebbene il Commendatore aveva deciso di candidarsi al Senato e aveva
bisogno di una piccola batteria di volontari che provvedesse a
distribuire i volantini, i fac-simile elettorali (i cosiddetti
“santini”) o ad annunciare le iniziative del partito dove egli
militava.
Scoprimmo che si trattava di quello che nel simbolo recava la
“stella e corona”, il partito filo monarchico che in quegli anni
esalava ancora vita.
Non è che per noi facesse molta differenza. Avevamo intravisto
agitarsi qualcosa nella nostra scuola: assemblee, proclami e dalla
lontana Francia rimbalzavano echi di dimostrazioni studentesche e di
scontri. Le immagini in bianco e nero dell’unico TG televisivo non
aiutavano molto a comprendere il tutto e, nell’estremo lembo della
Sicilia sud orientale dove vivevamo, le cose arrivavano attutite.
Solo qualche mese dopo, ai primi di dicembre, il paese sarebbe
salito sul proscenio nazionale, con gli scontri fra polizia e
braccianti i quali avrebbero lasciato due vittime sul selciato
cosparso di pietre e impregnato dal puzzo della camionetta che
bruciava.
Ma allora era aprile e noi si pensava a come racimolare la nostra
muta da calcio e, a differenza dei compagni di scuola più adulti e
politicizzati che si agitavano e organizzavano assemblee, noi
eravamo focalizzati sul nostro traguardo. Nulla poteva distrarci da
esso.
Beh, a dire il vero anche noi si seguiva il movimento politico che
attraversava la nostra scuola, ma, molto più prosaicamente, eravamo
interessati al fatto che le agitazioni studentesche comportavano
l’interruzione delle lezioni e potevamo inserirci nella folla per
avvicinare ragazze altrimenti difficilmente avvicinabili e con le
quali tentare timidi approcci di relazione. Insomma era un marinare
la scuola rivestito da nobili intenzioni e, pertanto, non ci creava
alcun complesso di colpa.
Il Commendatore ci radunò nel vicino Circolo dei Borghesi per
attivare la batteria propagandistica. Ci fece un discorso vibrante e
ricco di modulazioni di voce che passavano da un bisbiglio appena
percettibile ad un’escalation di decibel che culminava nello
stentoreo grido che “All’alba del 25 aprile tutte le campane delle
Chiese di Avola sarebbero suonate all’unisono per festeggiare
l’avvenimento: la città sarebbe stata impreziosita dalla presenza
del SUO nuovo Senatore” (che non poteva non essere che Lui, il
Commendatore medesimo). Alla fine dell’incontro ci vennero
consegnati i blocchi di volantini con il simbolo del Partito del
Commendatore che noi dovevamo inserire nei tergicristalli delle
vetture parcheggiate e distribuire in piazza o nei quartieri.
A Mario e a me venne affidato un compito di più alta
specializzazione. In una scalcinata camera del fatiscente “Albergo
Sicilia” che affacciava sulla Piazza principale del paese, il
Commendatore aveva fatto installare un altoparlante, collegato ad un
microfono e ad un giradischi; lo stesso era dotato di un 45 giri che
recava sulla facciata A “L’inno del Piave” e dall’altra “L’inno di
Garibaldi”. Noi avevamo l’elevata responsabilità di annunciare un
tale, Segretario Nazionale della Gioventù Monarchica, che sarebbe
venuto in serata a tenere un comizio che, manco a dirlo, sarebbe
stato concluso dal Commendatore. Il nostro stentoreo annuncio (in
realtà l’annuncio era sempre mio, dato che la balbuzie dell’amico
Mario era in agguato) era sempre concluso dalla partenza di un inno:
una volta partiva “Il Piave mormorava calmo e placido al passaggio
dei primi fanti il 24 maggio”, un’altra “Si scopron le tombe si
levano i morti…”.
Alla ventesima replica iniziammo a notare un certo disagio nel
“quartino” dove si affacciava la finestra dell’albergo. Notoriamente
era quello dei braccianti che, a dire il vero, allora non nutrivano
particolari simpatie per il Partito filomonarchico. Dalla finestra
socchiusa ci giungevano urla disumane e improperi del
proletariato avolese che, in modo alquanto inurbano, ci invitava a
piantarla lì con questi annunci corredati di relativo inno. Con
Mario ci guardammo in faccia e, dopo aver prudenzialmente chiuso a
chiave la camera del presunto hotel, continuammo imperterriti ad
emettere annunci e a mettere il 45 giri, da una parte e dall’altra.
La consegna del Commendatore era stata chiara e noi non volevamo
minimamente rischiare di mettere in pericolo la nostra muta di
calciatore solo per alcune grida gutturali di un bracciante
antimonarchico o, magari, addirittura comunista.
A dire il vero il nostro fervente impegno servì a ben poco; al
comizio vennero quattro gatti e richiamati esclusivamente dalla
performance del Commendatore che, nei comizi, dava sempre il meglio
di se stesso.
Come quella volta in cui, mentre stava promettendo il meglio del
mondo ai suoi elettori, ripetendo in modo martellante il suo “NOI VI
DAREMO IL LAVORO - NOI VI DAREMO IL PANE – NOI VI DAREMO….” un
imprevisto sbalzo di corrente produsse una leggera scossa elettrica
che dal microfono gli rimbalzò sulle labbra e fece concludere
l’ennesimo “NOI VI DAREMO…..” con un “MINCHIA A SCOSSA PIGGHIAI” che
risuonò inesorabilmente amplificato dall’antimonarchico microfono.
In ogni caso il comizio ebbe luogo, anche in presenza dello scarso
uditorio, ma non era un buon presagio ai fini del risultato
elettorale. In effetti all’apertura delle urne il Partito “Stella e
Corona” raccolse ben scarsi consensi, le campane di Avola non
suonarono a festa e la città non ebbe il SUO Senatore.
Trovammo il Commendatore sprofondato in una poltrona del Circolo dei
Borghesi, letteralmente prostrato e deluso dai suoi cittadini che
non avevano compreso l’importanza della sua elezione a Senatore.
L’amarezza gli faceva bisbigliare solo alcune frasi smozzicate e la
voce s’incrinava, il ciglio era umido.
Ci guardammo in faccia: come si poteva ricordargli della sua
promessa di dotarci della muta di calciatore? In quel momento di
dolore non ce la sentimmo proprio di rammentargli l’impegno assunto
anche se, da parte nostra, il lavoro era stato svolto con ardore e
dedizione.
La squadra non venne iscritta al Campionato perché sfornita di
divisa e noi tornammo a giocare nel cortile di casa, nelle pause dei
compiti, con i pantaloni lunghi e le scarpe “buone”, cercando di
evitare di spaccare i vetri delle finestre o di far cadere il “RIVER
PLATE” su di un’inaccessibile terrazza.
Però, nell’intraprendere improbabili dribblings, continuavamo a
sognare di diventare campioni.
Questo è stato il mio “68.