A metà gennaio del 1945 la seconda fase del grande rastrellamento invernale nella nostra provincia si stava estinguendo e le truppe asiatiche della Divisione Turchestan, con i loro carriaggi trainati da cavalli, si ritiravano dalle nostre valli, dopo le scorrerie durate quasi due mesi.  Forse, un po' alleggerite dalle numerose diserzioni, erano dirette al rafforzamento della Linea Gotica, il fronte appenninico che era fermo dall'autunno 1944. Erano state rimpiazzate, a presidio dei paesi di fondo valle, dalle varie unità della Repubblica Sociale, Guardia Nazionale Repubblicana, Brigate Nere, SS Italiane ed altre. A Rivergaro i militi erano acquartierati nella Casa Del Fascio e in parte nelle scuole. Altre unità occupavano il Castello di Montechiaro, a qualche chilometro a monte.

In paese, dopo le paure dei giorni del rastrellamento e la pesante occupazione tedesca, la vita scorreva abbastanza normalmente. Le privazioni erano tante, la penuria di prodotti alimentari drammatica, soprattutto per chi non poteva permettersi il mercato nero o non aveva accesso ai prodotti della terra che gli agricoltori riuscivano a sottrarre alle requisizioni. Il coprifuoco, fatto osservare rigidamente, rendeva del tutto deserte le strade dalla sera al mattino, percorse soltanto dai mezzi militari e dalle pattuglie degli occupanti.

I giovani erano spariti quasi tutti dalla circolazione da alcuni mesi. Si sapeva che la maggior parte aveva a suo tempo raggiunto le brigate partigiane e aveva subìto le conseguenze del rastrellamento. Qualcuno era stato catturato e non se ne sapeva più nulla, ma molti se l'erano cavata ed erano sicuramente sparpagliati in montagna o nei paraggi, se non addirittura presso i parenti a Rivergaro. Lo si intuiva dall'atteggiamento rilassato delle famiglie. Si erano ricostituiti piccoli gruppi armati ed erano ricominciate le azioni in pianura.

I militi fascisti non riuscivano certo a fraternizzare con la popolazione ed anche nei loro ranghi le diserzioni non mancavano. Ormai la maggior parte di loro doveva essersi resa conto che la loro guerra e quella dei nazisti era perduta e che il loro futuro, dopo le nefandezze compiute durante la lotta antipartigiana e la complicità con gli occupanti nazisti, era denso di nubi. La propaganda tuttavia continuava. I loro capi ripetevano che presto le sorti si sarebbero capovolte grazie alle nuove armi della Germania e al genio di Hitler e Mussolini,  ma anche la contropropaganda si faceva sentire, i volantini circolavano, le notizie della guerra sui vari fronti non potevano più essere taciute e gli stessi contatti con la popolazione locale giocavano il loro ruolo. Radio Londra, Radio Praga, diverse radio clandestine e le radio dell'Italia del Sud, già liberata, ormai le ascoltavano tutti coloro che erano in possesso di un apparecchio.

Ricordo che una sera dalla Casa del Popolo udimmo cori di canti patriottici del Regime e ci stupimmo un po'. I militi festeggiavano la morte improvvisa del Presidente americano Roosvelt, il grande nemico, come se fosse stata una vittoria da attribuire alle nuove armi segrete.

Fummo anche sorpresi, a metà aprile, alla vigilia dello sfondamento della Linea Gotica da parte degli anglo-americani, dall'attacco in forze contro i partigiani a Monticello da parte di ingenti forze della R.S.I. e contingenti tedeschi, finito con una grave disfatta da parte degli attaccanti.

Io, dopo le peripezie con mio padre fra novembre e dicembre attraverso le montagne piacentine, ero tornato da solo a Rivergaro e solo da poco mi spingevo regolarmente in paese.

La mattina del 16 aprile, verso mezzogiorno, mi recai sulla piazza principale per informarmi sulle nutrite sparatorie  e sulle cannonate che dall'alba avevano squassato le creste dei monti oltre Pigazzano. M'imbattei in diversi gruppi di militi, fra i quali alcune donne con mitra a tracolla. Notai le espressioni impaurite e demoralizzate e ascoltai qualche loro commento. Una delle donne disse che era caduto, fra gli altri, il suo capitano e che loro erano stati "sopraffatti da oltre cinquemila mongoli". Si seppe qualche giorno dopo che i partigiani a Monticello erano poche decine e che era caduto, fra gli altri partigiani, il "Valoroso", che avevo conosciuto l'anno prima a Pomaro.

Molti caduti fascisti arrivarono in paese su vari mezzi e furono allineati sulla piazzetta della chiesa di San Rocco prima di essere trasportati a Piacenza.

Mancava poco più di una settimana alla Liberazione e notammo quasi subito, dai movimenti sulla strada statale verso Piacenza, la ritirata dei contingenti verso la città. Gli alleati avevano finalmente sfondato la Linea Gotica verso Bologna e dilagavano nella pianura padana, mentre la pressione delle ricostituite brigate partigiane verso la pianura piacentina aumentava di ora in ora.

Finalmente, una mattina a ridosso del 25 aprile, vidi le colonne di autocarri e un piccolo carro armato lasciare il paese. Mi ero nascosto fra alcuni cespugli a lato della strada e ad un certo punto arrivarono alcuni aerei da sud a poche decine di metri dal suolo. Cominciarono a sparare con le loro mitragliatrici sopra alla mia testa  e proseguirono oltre le ultime case del paese verso Piacenza.

Dopo una mezz'ora corsi a casa, inforcai la bicicletta e pedalai di lena in direzione di Piacenza. Sulla strada c'erano rottami di automezzi, carri e alcuni cavalli morti. A Ponte Vangaro, dopo alcuni chilometri, fui fermato da un paio di partigiani che sostavano a  lato di un grosso carro armato americano. I carristi erano invece soldati brasiliani che avevano il compito di difendere la strada contro un eventuale tentativo di sfondamento da parte delle truppe tedesche bloccate dai partigiani liguri.  A Piacenza le brigate scese dalle varie valli  combattevano su tre lati della città contro le ultime resistenze nazifasciste.

Solo il 28 mattina le brigate riuscirono a occupare la città non senza aver subito numerose perdite ad opera di retroguardie e di alcuni cecchini. La città era finalmente libera. Gli alleati vi entrarono al seguito dei partigiani, come era avvenuto quasi in tutta l'Italia del nord. A Milano, Torino e Genova il C.L.N. aveva ordinato l'insurrezione generale e si era costituito come governo provvisorio in rappresentanza del governo italiano di Roma presieduto da Ivanhoe Bonomi.

Il Duce e i maggiori gerarchi fascisti furono catturati a Dongo, sul lago di Como, sulla via per la Svizzera o comunque in cerca di salvezza. Furono quasi tutti fucilati sul posto.

                                                          

Erano finiti l'incubo ventennale della dittatura fascista, la dura occupazione nazista, la guerra in Italia.  La gente si riversava ovunque sulle strade imbandierate a festeggiare. I partigiani e le truppe alleate erano accolti ovunque con grande gioia e sollievo, dopo tutti quei mesi in cui i nazifascisti avevano spadroneggiato. Passarono meno di due settimane e anche la Germania collassò, il Fuehrer e alcuni suoi alti gerarchi si suicidarono nel bunker di Berlino, altri furono catturati, altri ancora riuscirono a fuggire o restarono nascosti. La Germania fu divisa in due zone d'influenza, gli alleati occidentali a ovest, i sovietici a est.

L'Italia, sconfitta ma in qualche modo riscattata dalla Resistenza e dalla collaborazione nella lotta antinazista dopo l'8 settembre 1943, ritrovò la democrazia e, con qualche perdita territoriale oltremare e nella Venezia Giulia, restò integra e si accinse presto alla ricostruzione e allo sviluppo.

                                                        

Qua e là, in Emilia Romagna, a Torino e altrove, vi furono ritorsioni e vendette. I collaborazionisti più odiati, ma anche semplici gregari accusati di aver fiancheggiato gli occupanti e direttamente o indirettamente di aver partecipato alla loro guerra in casa nostra, furono perseguitati o giustiziati nelle settimane successive alla Liberazione, per lo più ad opera di frange clandestine o per vendette personali, ma poi sopravvenne un'amnistia generale e si rividero in circolazione e addirittura in posti di comando individui che poi giungeranno a vantarsi delle scelte fatte e delle camicie nere indossate e in qualche caso a rinverdire nelle menti di certi giovani le ideologie che sono state condannate irrevocabilmente dalla storia.

In Italia si chiamò Fascismo, ma il mondo ha purtroppo sperimentato e tuttora sperimenta ideologie e regimi autoritari, repressivi e violenti. E' essenziale che i nostri giovani non dimentichino la  storia del nostro paese nei due secoli passati, in particolare il Fascismo e le sue guerre di aggressione, l'oppressione imperialistica di altri popoli, le violenze nei confronti degli oppositori, l'alleanza criminale con i nazisti e poi quanto fu difficile e sanguinoso liberarci da quel regime.

 

Giacomo Morandi - Rivergaro

 

 

 

 

Segnala questa pagina ad un amico




 

Piazza Scala - aprile 2015